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    Nicola Cavalli - Oscar Ricci - Elisabetta Risi (sous la direction de)
    M@gm@ vol.4 n.1 Janvier-Mars 2006

    OPERA APERTA: WKIPEDIA E L’ORALITÀ SECONDARIA


    Tommaso Venturini

    tommaso.venturini@unimib.it
    Università degli Studi di Milano.

    Chi studia la comunicazione è spesso preso tra due pericoli opposti: da un lato, il rischio di sottovalutare l’influenza dei media, riducendoli a condutture asettiche lungo le quali i messaggi scorrono incontaminati; dall’altro lato, il rischio di sopravvalutare il ruolo dei media, attribuendogli il potere di determinare il corso della comunicazione e in ultima istanza dell’intera società. Da un lato, il pericolo di disconoscere gli effetti degli schermi mediatici; dall’altro, il pericolo di nascondere la complessità dei fenomeni comunicativi sotto la coperta dell’influenza mediale [1]. Chi studia la comunicazione si trova nell’imbarazzo in cui dovette trovarsi Bertoldo, protagonista di una celebre opera della tradizione ciarlatanesca italiana. Ne Le sottilissime astuzie di Bertoldo (1606) di Giulio Cesare Croce, Re Alboino ordina a Bertoldo di presentarsi l’indomani “né nudo né vestito”. Per obbedire al comando, Bertoldo ritorna il giorno seguente “involto in una rete da pescare". Vedendolo così abbigliato il Re lo incalza:
    Re: Perché sei tu comparso così alla presenza mia?
    Bertoldo: Non dicesti tu ch'io tornassi a te questa mane e che io non fosse né nudo né vestito?
    Re: Sì, dissi.
    Bertoldo: Ed eccomi involto in questa rete, con la quale parte copro delle membra, e parte restano scoperte.
    Txell Miras, giovane stilista spagnola, ha trovato una soluzione più elegante al paradosso di Re Alboino. Nell’edizione 2006 della Pasarela Gaudi di Barcellona, la Miras ha presentato l’abito ritratto in figura 1. Con più efficacia di un trattato di semiotica, questo vestito ci ricorda che la relazione tra segno e referente non è una semplice relazione d’identità. Per quanto si assomiglino, per quanto siano contigui, la fotografia e il corpo della modella non sono la stessa cosa. Anzi, almeno in questo caso, la funzione dell’immagine è esattamente quella di sottrarre il referente all’osservazione diretta. Il segno vela il suo riferimento proprio quando lo indica più chiaramente. Coperte dal quadro della fotografia, le forme della modella non sono immediatamente accessibili allo sguardo. Allo stesso tempo, tuttavia, è evidente che l’abito non è ideato per nascondere il fisico dell’indossatrice. Al contrario, la mise ha il compito di incorniciare e mettere in risalto la bellezza della ragazza. Come in ogni defilé, infatti, il vero oggetto dell’esposizione non sono le indossatrici, ma gli abiti che indossano. Inscrivere il corpo della modella nella materia del vestito è dunque l’unico modo per trasformare quel corpo da semplice supporto o manichino in oggetto dell’attenzione. Né il gioco di specchi tra segno e referente finisce qui. Per noi (come per tutti coloro che non erano presenti alla sfilata) è assolutamente indifferente che l’immagine schermi il corpo della modella, giacché, in ogni caso, vestito e indossatrice ci si presentano attraverso la mediazione fotografica.

    Fig. 1 – Abito di Txell Miras (fotografia di Kshoot per Vogue.es)

    Txell Miras non è ovviamente la prima ad aver affrontato il paradosso dell’ostensione/occultamento implicito nei processi semiotici. Il quadro di René Magritte riportato in figura 2 è dedicato al medesimo tema. Les Deux Mystères è l’ultima versione di una serie di opere in cui il pittore belga riflette sul problema della relazione-distinzione semiotica. L’accostamento dei due disegni di pipa e della scritta “ceci n’est pas un pipe” produce l’effetto straniante di separare l’immagine dall’oggetto che rappresenta. Esattamente come l’abito della Miras, il dipinto di Magritte mette in discussione la continuità tra segno e referente. Il senso dell’operazione non è sfuggito a Michel Foucault che a questo quadro ha dedicato un saggio molto brillante, di cui riportiamo un estratto.

    Tutto è solidamente ormeggiato all’interno di uno spazio scolastico: una lavagna «mostra» un disegno che «mostra» la forma di una pipa; e un testo scritto da un maestro zelante «mostra» che si tratta davvero di una pipa. L’indice del maestro non si vede, ma regna dovunque, come la sua voce, che sta articolando molto chiaramente: «Questo è una pipa». Dalla lavagna all’immagine, dall’immagine al testo, dal testo alla voce, una sorta di dito indice generale è puntato, mostra, fissa, segnala, impone un sistema di rimandi, tenta di stabilizzare uno spazio unico. Ma perché ho introdotto anche la voce del maestro? Perché non appena essa ha detto «Questo è una pipa», ha dovuto correggersi e balbettare: «Questo non è una pipa, ma il disegno di una pipa», «Questo non è una pipa, ma una frase che dice che è una pipa», «La frase: “Questo non è una pipa” non è una pipa »; «Nella frase: “Questo non è una pipa”, questo non è una pipa: il quadro, la frase scritta, il disegno di una pipa, tutto questo non è una pipa».

    Le negazioni si moltiplicano, la voce si imbroglia e soffoca; il maestro, confuso, abbassa l’indice teso, volta le spalle alla lavagna, osserva gli alunni che si torcono dalle risate e non si rende conto che essi ridono così forte perché sopra la lavagna e sopra il maestro che farfuglia le sue smentite si è appena alzato un vapore che ha preso forma a poco a poco, e che ora disegna con molta precisione una pipa. « E una pipa, è una pipa » gridano gli alunni battendo i piedi, mentre il maestro, a voce sempre più bassa, ma sempre con la stessa ostinazione, mormora senza che ormai nessuno lo ascolti: «Eppure questo non è una pipa». Non ha torto: perché la pipa che fluttua così visibilmente sopra la scena, al pari della cosa cui si riferisce il disegno della lavagna, e in nome di cui il testo può dire a ragione che il disegno non è veramente una pipa, anche quella pipa non è che un disegno (Foucault,1973, pp. 38-40 trad. it.)

    Fig. 2 – Les Deux Mystères (René Magritte, 1966)

    Il lettore ci scuserà se ci soffermiamo un poco sulla distinzione-relazione semiotica. È necessario, prima di affrontare la questione della mediazione comunicativa, mettere in chiaro il paradosso per cui segno e referente non sono la medesima cosa e, contemporaneamente, non sono cose del tutto diverse. Per definizione, un segno è un qualcosa che rimanda ad altro, un indice che punta verso un referente [2]. Sciolto dal legame con il proprio referente, un segno non è più tale. Eppure, come giustamente osserva Umberto Eco (1984), la strada che va dal segno al referente non passa mai per un rapporto d’identità, ma sempre per un rapporto d’inferenza:
    Si vede come fosse discutibile la condanna del segno impostata sull’imputazione di uguaglianza, similitudine, riduzione delle differenze. Questa condanna dipendeva dal ricatto del segno linguistico ‘piatto’ inteso come correlazione fondato sulla equivalenza senza sbocchi, sostituzione di identico a identico. Invece il segno è sempre ciò che mi apre a qualcosa d’altro. Non c’è interpretante che nell’adeguare il segno che interpreta, non ne sposti sia pure di poco i confini (p. 52).
    Un segno, dunque, non è mai la copia esatta del suo referente, né è correlato ad esso tramite un legame naturale. La connessione tra segno e referente è sempre il risultato di un’operazione (distinzione-relazione) di interpretazione. Tale operazione è appunto la comunicazione.

    Il mezzo è il messaggio

    Come ci accingiamo a mostrare, la definizione di comunicazione che abbiamo suggerito ci mette al riparo dal primo dei pericoli di cui abbiamo detto all’inizio. L’equivoco che riduce i media a semplici dispositivi per il trasporto di messaggi indipendenti, non è infatti compatibile con l’idea di comunicazione come processo inferenziale che distingue e collega segni e referenti. Tale equivoco deriva direttamente dalla tentazione di confondere il problema della comunicazione, con la questione (assai più lineare) del mero trasferimento di segnali.

    Nella moderna riflessione sui media, tale tentazione ha trovato la sua più influente manifestazione nell’infelice scelta di Claude Shannon di titolare il suo più celebre articolo “A Mathematical Theory of Communication” (1948). In effetti, fin dalle prime righe dell’articolo, l’ingegnere americano ammette - molto onestamente - che egli intende occuparsi esclusivamente della dislocazione dei messaggi, non della loro interpretazione:
    Il problema fondamentale della comunicazione è quello di riprodurre in un punto, in modo esatto o quasi, un messaggio che è stato selezionato in un altro punto. Spesso questi messaggi hanno un significato, vale a dire che essi si riferiscono, o sono correlati secondo un sistema, a certe entità fisiche o concettuali. Questi aspetti semantici sono irrilevanti dal punto di vista dell’ingegneria (p. 379, traduzione mia).

    Fig. 3 – Struttura di un sistema di trasmissione di messaggi secondo Shannon (schema originale)

    Dopo questa doverosa premessa, Shannon passa a schematizzare la struttura tipo della trasmissione di segnali e osserva che essa è costituita molto semplicemente da un emittente che invia un messaggio a un ricevente attraverso un canale. Talora, può accadere che il messaggio non giunga invariato al ricevente. Lungo il canale, infatti, possono verificarsi delle alterazioni dovute alla presenza di rumore. Il problema dell’ingegneria della comunicazione diviene allora quello di codificare i messaggi in modo da trasformarli in segnali che possano essere trasferiti con la minor corruzione possibile.

    Dal punto di vista tecnico, la semplificazione di Shannon si è dimostrata straordinariamente fertile. Senza di essa la rivoluzione digitale e telematica non sarebbe stata possibile e oggi non saremmo qui a parlare di Wikipedia. Purtroppo però la seducente linearità dello schema presentato in figura 3 ha convinto alcuni autori a ritenere che la teoria di Shannon potesse essere usata per rappresentare l’intero processo della comunicazione umana. Tale forzatura ha generato alcuni gravi equivoci, tra cui l’idea che tutte le trasformazioni prodotte sui messaggi nel corso della comunicazione possano essere ridotte a mero rumore. Ecco, allora, che anche l’influenza dei media può essere (ingiustamente, ma coerentemente) liquidata come un’interferenza accidentale ed evitabile.

    Se, invece, come abbiamo cercato di fare in questo articolo, abbandoniamo la nozione di comunicazione come trasmissione, a favore di una nozione più realistica di comunicazione come interpretazione, allora ci si rivelerà chiaramente come l’alterazione dei segni nel corso del processo di mediazione non sia una fonte d’imprecisione, ma il processo stesso attraverso cui si costituisce la relazione tra segno e referente. Ci avviciniamo dunque al senso del celebre slogan di Marshall McLuhan “the medium is the message”. Il mezzo è il messaggio, sostiene lo studioso canadese, giacché la natura del mezzo influenza l’interazione ancor più del suo stesso contenuto, come dimostra l’osservazione che la comunicazione non è priva di senso nemmeno quando è priva di contenuto.

    La luce elettrica sfugge all’attenzione come mezzo di comunicazione esattamente per il fatto di non avere “contenuto”. E ciò la rende un esempio inestimabile di come le persone sbaglino completamente nell’analisi dei media. Infatti, la luce elettrica non viene notata come medium fino a quando non viene usata per scrivere il nome di qualche marca. E anche allora non è la luce, ma il “contenuto” a essere notato. Come il messaggio dell’energia elettrica nell’industria, il messaggio della luce elettrica è totalmente radicale, pervasivo e decentralizzato. La luce e l’energia elettrica sono separati dai loro usi e tuttavia eliminano lo spazio e il tempo nelle associazioni umane creando un coinvolgimento profondo, esattamente come la radio, il telegrafo, il telefono e la televisione (1964, p. 9, traduzione mia).

    L’osservazione di McLuhan è ripresa nell’installazione di Bruce Nauman riportata in figura 4. “None Sing–Neon Sign” riassume molto bene l’argomentazione che abbiamo sviluppato. L’accostamento degli anagrammi è infatti inteso a rivelare l’arbitrarietà del legame tra segno e referente, che, lungi dall’essere naturale, si costituisce attraverso le convenzioni linguistiche e il contesto dell’a interpretazione. Tale è l’influenza dei linguaggi e dei canali che mediano i processi comunicativi. Nell’installazione, questa influenza è rappresentata dall’imporsi visivo dei tubi al neon. Così come nella riflessione di McLuhan, il vero protagonista è qui il medium elettrico, la luce che disegna nel buio le lettere degli anagrammi: il mezzo è il messaggio.

    Fig. 4 – Bruce Nauman, None Sing–Neon Sign

    Un’evoluzione verso il passato

    Per quanto brillante, l’intuizione di McLuhan contiene, nondimeno, una tentazione dalla quale dovremo guardarci: il rischio di sconfinare nella seconda semplificazione di cui abbiamo detto, finendo per sopravvalutare l’influenza dei mezzi di comunicazione. In particolare, occorre evitare di applicare alla comunicazione la logica del determinismo tecnologico, vale a dire di quella concezione che attribuisce alla tecnologia un ruolo dominante ed esclusivo nel determinare i fenomeni sociali. Questo genere di sopravvalutazione riguarda tutte le tecnologie[3] e, tuttavia, risulta particolarmente accentuato nel caso delle tecnologie mediatiche. Se è ingenuo credere che i mezzi di comunicazione siano mediatori neutrali di messaggi autonomi, è altrettanto ingenuo pensare che un’innovazione nel campo dei media, per quanto rivoluzionaria, possa dare inizio a una nuova era del vivere sociale. Eppure questo è esattamente quello che, più o meno esplicitamente, sostengono molti studiosi dei media.

    Un esempio particolarmente radicale di questa tesi si può far risalire allo stesso McLuhan e alla sua nozione di ‘“villaggio globale’”. Secondo McLuhan, la diffusione dei media elettronici ha innescato, nell’Ooccidente moderno, un irreversibile processo di ‘“retribalizzazione’”. Tale processo consiste nel ritorno a uno stile di vita e di pensiero, simile a quello delle comunità tradizionali. Superando la frammentazione e la specializzazione generate dalle tecnologie della scrittura e della stampa, l’uomo moderno si ritrova immerso nel contesto immediato e coinvolgente dei media elettronici: “as electrically contracted, the globe is no more than a village” (una volta contratto dall’elettricità il globo non è più che un villaggio). Non si tratta soltanto dell’accorciamento delle distanze dovuto alla velocità dei nuovi media[4], ma del ritorno a forme di percezione e organizzazione olistiche e tribali.

    Una gerarchia feudale di tipo tradizionale collassa rapidamente quando incontra un media caldo di tipo meccanico uniforme e ripetitivo. Il mezzo del denaro, della ruota, della scrittura ovvero di ogni altra forma specializzata nel velocizzare lo scambio di informazioni servirà a frammentare una struttura tribale. Analogamente, una velocità molto più elevata, come quella che accompagna l’elettricità, può servire a restaurare un tessuto tribale di inteso coinvolgimento. Così è successo in Europa con l’introduzione della radio e così tende a succedere ora in America come conseguenza della televisione. Le tecnologie specialistiche detribalizzano. La tecnologia non-specialistica dell’elettricità ritribalizza (McLuhan, 1964, p. 24, traduzione mia).

    La nozione di villaggio globale è interessante perché introduce nella storia dei media una sorta di evoluzione verso il passato. In implicita polemica con il mito occidentale di un progresso tecnologico lineare e continuo[5], McLuhan (1964) propone l’idea di un’evoluzione mediale fatta di rotture ricorrenti e rovesciamenti radicali. Secondo il pensatore canadese, il percorso della tecnologia è costellato da periodici punti di svolta, soglie d’intensità oltre le quali lo sviluppo di una tecnica si trasforma nel suo opposto.

    Oggi con i microfilm e le micro-schede, per non menzionare i dispositivi di memorizzazione elettronica, la parola stampata assume di nuovo molto del carattere artigianale del manoscritto. D’altra parte, la stampa a caratteri mobili è stata essa stessa un fondamentale momento di rottura nella storia della scrittura fonetica, esattamente come l’alfabeto fonetico era stato un momento di rottura tra l’uomo tribale e quello individualistico (p. 39, traduzione mia).

    Come molta parte della riflessione di McLuhan, l’idea del “reversal of the overheated medium” (rovesciamento dei media surriscaldati) rimane una suggestione interessante, ma vagamente definita. Forse proprio per questo, la tesi di un’evoluzione verso il passato, della ricomparsa nella modernità di schemi caratteristici delle comunità tradizionali, si è prestata a essere ripresa e sviluppata da tanti studiosi successivi. Tra le numerose teorie ispirate alla nozione di villaggio globale, è particolarmente degna d’attenzione quella sviluppata da Walter Ong. In “Orality and Literacy, the Technologizing of the Word” (1982), Ong riprende esplicitamente la tesi di McLuhan e afferma:

    Con il telefono, la radio, la televisione e i vari tipi di nastri da registrare, la tecnologia elettronica ci ha condotti in un era di ‘oralità secondaria’. Questa nuova oralità ha sorprendenti somiglianze con quella più antica per la sua mistica partecipatoria, per il senso della comunità, per la concentrazione sul momento presente e persino per la sua utilizzazione delle formule… L’oralità secondaria è molto simile, ma anche molto diversa da quella primaria. Come quest’ultima, anche la prima ha generato un forte senso comunitario, perché chi ascolta le parole parlate si sente un gruppo, un vero e proprio pubblico di ascoltatori, mentre la lettura di un testo scritto o stampato fa ripiegare gli individui su di sé. Ma l’oralità secondaria genera il senso di appartenenza a gruppi incommensurabilmente più ampi di quelli delle culture ad oralità primaria, genera cioè il ‘«villaggio universale’» di McLuhan (p. 191, trad. it.)

    Va subito rilevato che, a differenza di McLuhan, Ong è interessato solo tangenzialmente agli sviluppi moderni delle tecnologie della comunicazione. L’opera del pensatore gesuita è dedicata principalmente allo studio delle trasformazioni dovute alla diffusione della scrittura e della stampa. Egli accenna infatti solo di sfuggita alla possibilità di un ritorno a forme di oralità secondaria, mentre analizza in dettaglio le innovazioni tecnologiche che hanno portato al superamento dell’oralità primaria. Proprio per questo, però, le tesi sviluppate in “Oralità e scrittura” offrono un’esemplificazione più precisa del determinismo tecnologico e mediale. Concentrandosi su un problema più ristretto, Ong distingue con maggior chiarezza le caratteristiche delle culture orali e di quelle chirografiche ed è più netto nel ricondurle alla natura dei mezzi di comunicazione disponibili. Rispetto alle suggestioni del villaggio globale, dunque, l’ipotesi dell’oralità secondaria suggerisce uno schema più definito per indagare i più recenti sviluppi della modernità mediatica.

    Tribù telematiche

    Come abbiamo detto, Ong non ha mai davvero approfondito l’ipotesi dell’oralità secondaria. Tuttavia non sono mancati gli autori che, riprendendo tale ipotesi, hanno cercato di evidenziare gli effetti retribalizzanti dei nuovi media. Curiosamente, agli occhi dei successivi studiosi dei media, è parso che fossero soprattutto le tecnologie telematiche a realizzare le previsioni che Ong e McLuhan avevano sviluppato con riferimento ai mezzi di ‘broadcasting’ (tipicamente la radio e la televisione). Ciò è tanto più curioso nel caso dell’oralità secondaria, giacché Ong stesso (1982) aveva esplicitamente sostenuto che le tecnologie informatiche andassero piuttosto nella direzione di rafforzare gli effetti dell’alfabetizzazione.

    L’elaborazione e la spazializzazione sequenziali delle parole infine, iniziate con la scrittura e intensificate dalla stampa, hanno ricevuto infine ulteriore impulso dal computer, che massimizza l’affidamento della parola allo spazio e al movimento (elettronico) locale e ottimizza la sequenza analitica, rendendola praticamente istantanea (p. 191 trad. it.).

    Occorre però rilevare che Ong scriveva agli esordi della rivoluzione informatica e di essa aveva potuto osservare soltanto l’impiego nell’elaborazione dei dati. Sono, invece, le potenzialità ipertestuali e connettive di Internet ad aver colpito gli autori successivi[6].

    Discuteremo ora le teorie di alcuni autori che hanno cercato di applicare la nozione di oralità secondaria alla comunicazione in Internet. Non potendo, in questo breve articolo, citare tutti i contributi all’idea di ritribalizzazione telematica, abbiamo deciso di limitarci a quelli che sono stati pubblicati originariamente sulla Rete. Ciò non perché questi interventi siano i migliori, ma perché riteniamo interessante mostrare la riflessione che i gruppi telematici hanno sviluppato riflessivamente circa le proprie modalità di comunicazione.

    Uno dei primi utenti della Rete ad aver notato che la diffusione della comunicazione mediata dal computer costituiva una sostanziale rivoluzione nel panorama mediale è Steven Harnad (1991). Pur senza riferirsi esplicitamente alla nozione di oralità secondaria, Harnad rileva come l’accelerazione della mediazione telematica sia destinata a condurre la società occidentale verso una ‘“galassia post-gutemberghiana’”, riportando lo scambio intellettuale alla velocità tipica della discussione orale:

    Mentre il linguaggio parlato si adatta facilmente alla capacità d’emissione e ricezione del pensiero umano – e ciò forse per riflesso del fatto di poter contare su un hardware neurologico dedicato – la scrittura è in un certo senso fuori sincronia con il pensiero. È lenta … Il fatto è che il medium della scrittura è, senza rimedio, fuori sincronia con il meccanismo del pensiero umano e con la velocità d’interazione che esso avrebbe se solo ci fosse un medium che potesse supportare il necessario feedback di ritorno, in tempo giusto![7] Senza rimedio, fino all’avvento della quarta rivoluzione cognitiva che ha reso possibile riportare la comunicazione accademica ad un tempo molto più vicino al potenziale naturale del cervello (traduzione mia).

    Un paio d’anni dopo l’articolo di Harnad, nel 1993, Howard Rheingold pubblica online e su carta un testo destinato a influenzare enormemente la cultura della Rete. In “The Virtual Community”, il giornalista americano racconta e analizza la sua esperienza di comunicazione nella comunità del WELL (Whole Earth 'Lectronic Link). La tesi avanzata da Rheingold, e in seguito ripresa da moltissimi autori, è che le tecnologie della comunicazione mediata dal computer (CMC) favoriscano l’aggregazione e offrano la possibilità di un’esperienza di socialità comunitaria sempre più rara nelle società contemporanee.

    Ormai conosciamo qualcosa circa il modo in cui le precedenti generazioni di tecnologie della comunicazione hanno cambiato il modo di vivere delle persone. Dobbiamo capire come e perché così tanti esperimenti sociali sono oggi in coevoluzione con i prototipi delle più nuove tecnologie della comunicazione. L’osservazione diretta, in tutto il mondo e per gli ultimi dieci anni, dei comportamenti online mi ha condotto a concludere che ogni volta che la tecnologia della CMC è messa a disposizione delle persone, ovunque esse inevitabilmente finiscono per costruire con esse comunità virtuali, esattamente come i microrganismi inevitabilmente formano colonie (traduzione mia).

    Pur enfatizzando il potenziale della Rete nel promuovere forme d’interazione comunitaria, Rheingold non attribuisce esplicitamente tale potenziale al carattere orale della comunicazione telematica. Questo passaggio è invece compiuto da John December (1993), un altro pensatore molto influente nei primi anni della diffusione di Internet. Secondo December, la comunicazione telematica può essere ricondotta alla nozione di oralità secondaria proprio per la sua capacità di creare un ambiente comunicativo ‘caldo’, aperto alla partecipazione e al coinvolgimento:

    La CMC crea un mondo, basato sul testo, che manifesta caratteristiche proprie delle culture a oralità primaria. La differenza tra la CMC e la comunicazione basata su testi cartacei non è semplicemente analoga alla differenza tra la comunicazione scritta e quella parlata o alla differenza tra scrittura e oralità. Le tecnologie della CMC trasformano il pensiero e la cultura favorendo la creazione di comunità in cui i partecipanti, proprio come i membri delle culture a oralità primaria, possono prendere parte ad una comunicazione emozionale, espressiva e coinvolgente (traduzione mia).

    Si deve comunque a Robert Fowler (1994) il tentativo più approfondito di applicare l’ipotesi dell’oralità secondaria alla comunicazione in Rete. In un articolo intitolato alla ‘“secondary orality of the electronic age’”, Fowler passa in rassegna tutte le caratteristiche attribuite da Ong alle culture orali, cercando di mostrare come esse siano comuni anche alle interazioni telematiche. Secondo l’autore, esattamente come quella orale, la comunicazione mediata dal computer tende a essere:
    – evanescente piuttosto che permanente (per la possibilità dei testi elettronici di essere e rimanere costantemente modificabili e dislocabili);
    – aggregativa piuttosto che analitica (per la tendenza dei testi ipertestuali a strutturarsi secondo logiche associative, non-lineari e non-gerarchiche);
    – vicina alla vita umana (per l’inclinazione a generare interazioni immediate e personali);
    – agonistica (per la facilità con cui si manifestano fenomeni di flaming);
    – enfatica e partecipativa piuttosto che distanziata ed oggettiva (per il modo in cui favorisce l’aggregarsi di comunità virtuali);
    Fowler annuncia quindi con entusiasmo l’avvento dell’oralità secondaria profetizzata da Ong.

    Attraverso i nostri computer, telefoni, televisioni, videoregistratori, lettori CD e registratori a nastro, gli ipertesti irrompono nelle nostre accoglienti case, ci prendono per illa colletto e ci tuffano nell’avventura dell’oralità secondaria. Sorprendentemente, gli ipertesti incarnano e attuano molti aspetti lontani ed esotici dell’oralità primaria, immergendoci profondamente nel cyberspazio. L’oralità non è più un’area di studio bizzarra e antiquaria – è una descrizione calzante della realtà nella quale noi tutti stiamo precipitando ogni giorno sempre più a fondo (traduzione mia).

    I limiti del determinismo telematico

    Per quanto suggestive ed in parte condivisibili, le teorie che abbiamo discusso tendono a sconfinare nell’equivoco determinismo tecnologico. Più in generale, tutte le concezioni secondo cui i media telematici sono destinati a trasformare le società occidentali in comunità di “cacciatori e raccoglitori cyber-tribali” (Barlow, 1994) commettono almeno tre errori:
    1) non considerano la natura composita e differenziata dei media telematici;
    2) sottovalutano la complessità del sistema mediale moderno;
    3) sopravvalutano l’influenza dei media sulla vita sociale.

    Occorre anzitutto notare che le possibilità mediatiche aperte dalla telematica sono molto più ampie e variegate di quelle generate da qualunque tecnologia precedente. Lungi dall’avere una natura uniforme e indifferenziata, le tecnologie telematiche si caratterizzano soprattutto per la multimedialità, vale a dire per la capacità di supportare molti media diversi. Sulla Rete circolano e-mail, ipertesti, newsgroup, newsletter, mailing-list, basi di dati, instant message, chat, mud, scambi peer-to-peer e molto altro ancora. Ognuna di queste forme di comunicazione è dotata di caratteristiche ed effetti peculiari che non è possibile ridurre ad un unico movimento verso l’oralità. Se è vero che alcune di queste forme manifestano aspetti decisamente orali (ad es. gli istant-message, i mud e i newsgroup), è altrettanto vero che altre sembrano piuttosto orientate verso una sorta di alfabetizzazione secondaria (ad es. le basi di dati e le newsletter)[8].

    In secondo luogo, credere che Internet trasporti l’intera modernità occidentale verso una nuova era di oralità secondaria vuol dire trascurare il fatto che la telematica non è né l’unica né la principale tecnologia mediale a disposizione delle società contemporanee. Se c’è una legge che la storia dei media non ha mai falsificato è che i nuovi media non sostituiscono, ma si affiancano ai vecchi: l’alfabetizzazione non ha cancellato la parola parlata; la stampa non ha estinto la scrittura manuale; la radio non ha eliminato la stampa e non è stata eliminata dalla televisione. È dunque inverosimile che l’avvento dei nuovi media telematici produca l’accantonamento dei vecchi. Al contrario, per le risorse multimediali di cui abbiamo detto, le tecnologie telematiche si prestano piuttosto a farsi veicolo di forme comunicative originarie di altri canali come dimostrano gli esperimenti di voice-over-ip, editoria elettronica e web-casting.

    Infine anche ammettendo che Internet sia un mezzo prevalentemente orale e che esso riesca a prendere il sopravvento su tutti gli altri media, questo non vuole automaticamente dire che le società moderne acquisiranno caratteristiche simili a quelle delle comunità tradizionali. Il sistema dei media non è che uno dei molti sotto-sistemi che compongono le nostre società. Differenze economiche, politiche, giuridiche, artistiche e religiose ci separano dalle comunità tradizionali e non è ragionevole ritenere che tali differenze scompaiano semplicemente perché si evidenziano alcune somiglianze nel campo dei media.

    Si dovranno dunque guardare con sospetto tutte quelle concezioni che, come la teoria del villaggio globale di McLuhan e l’ipotesi dell’oralità secondaria di Ong, usano lo sviluppo dei media per annunciare un generalizzato ritorno al passato. Sarà invece più utile concentrarsi su una singola innovazione mediale e analizzarne nel dettaglio le caratteristiche e le conseguenze peculiari. Ciò è esattamente quello che ci accingiamo a fare nell’ultima parte di questo articolo. Nelle prossime pagine prenderemo in considerazione un modello comunicativo introdotto recentemente nel panorama mediatico della Rete e detto ‘wiki’ o ‘ipertesto a scrittura collaborativa’. Analizzando tale modello speriamo di mostrare non solo come la nozione di oralità secondaria, ma la stessa distinzione oralità/scrittura sia ormai da superare o, quantomeno, da ripensare radicalmente.

    L’origine dei wiki

    Il modello comunicativo ‘wiki’ nasce nel 1995 con l’implementazione, ad opera di Ward Cunningham, di ‘WikiWikiWeb’. Inizialmente destinato a servire da documentazione per il progetto Portland Pattern Repository[9], WikiWikiWeb fu sviluppato con l’obiettivo di facilitare lo scambio di idee tra i programmatori, favorendo la collaborazione in linea. Da questa esigenza, nacque l’idea di creare un ipertesto in cui gli utenti potessero non solo aggiungere nuovi contenuti (come già avveniva nei forum), ma anche modificare i contenuti esistenti. In sostanza, si trattava di mettere in pratica l’idea di “intelligenza collettiva” di Pierre Léevy (1994), costruendo una rete i cui nodi e legami potessero essere modificati liberamente da qualunque utente e per un qualunque numero di volte.

    Quattro erano le caratteristiche di questo primo prototipo che furono ereditate da tutti i successivi esperimenti di wiki. Primo, le pagine che costituivano WikiWikiWeb potevano essere editate molto rapidamente[10] e utilizzando un semplice browser web, vale a dire lo stesso applicativo utilizzato per leggerle. Secondo, le pagine potevano essere collegate le une alle altre via hyperlink con la medesima facilità. Terzo, non era presente alcuna moderazione ex-ante, vale a dire che non era prevista alcuna revisione prima che le modifiche alle pagine fossero pubblicate. Quarto, dal 1996 fu implementata la possibilità di cancellare rapidamente l’ultima modifica operata su una pagina.

    Fig. 5 – Il logo di Wikipedia

    Fu presto chiaro che l’idea di Cunningham era straordinariamente brillante e destinata ad applicazioni che andavano ben oltre il suo impiego originario. Tuttavia, perché le potenzialità del concetto di wiki trovassero piena espressione si dovette attendere il 15 gennaio 2001 quando Jimmy Wales and Larry Ranger lanciarono il progetto ‘Wikipedia’. Oltre ad alcuni perfezionamenti riguardanti l’aspetto grafico, il motore di ricerca e la gestione dei contenuti multimediali, il progetto Wikipedia ha introdotto nel modello di wiki due innovazioni fondamentali. In primo luogo, il software su cui si basa Wikipedia permette di conservare l’intera storia della modifiche a una pagina (e in seguito mostreremo quanto ciò sia fondamentale). In secondo luogo, a differenza di WikiWikiWeb, Wikipedia non pone alcuna limitazione al tipo di contenuti trattabili, orientandosi verso il modello dell’enciclopedia generalista.

    L’introduzione di queste due innovazioni apparentemente minori ha segnato una svolta nella diffusione dell’idea di wiki. Negli ultimi cinque anni, Wikipedia ha conosciuto un successo inaspettato ed una crescita esponenziale. Oggi, Wikipedia raccoglie oltre due milioni e mezzo di pagine e può contare su 100.000 collaboratori regolari di cui 30.000 attivi nell’ultimo mese. Da sola, l’edizione inglese [11] di Wikipedia sfiora il milione di pagine (vedi figura 6) ed è stata editata da oltre 50.000 collaboratori. Inoltre, in questi cinque anni, Wikipedia ha ottenuto un ottimo posizionamento online, comparendo fra i primi risultati di molti motori di ricerca per un numero crescente di ricerche e posizionandosi al trentesimo posto tra i siti più visitati della Rete (secondo Alexa.com).

    Fig. 6 – La crescita delle pagine dell’edizione inglese di Wikipedia

    Fino ad oggi il dibattito sul successo di Wikipedia è stato monopolizzato dalla questione dell’affidabilità delle sue voci. Interminabili discussioni si sono consumate sulla possibilità che un’enciclopedia compilata anonimamente e senza alcun processo di revisione possa produrre articoli di qualità comparabile a quelli delle enciclopedie tradizionali. Da un lato, molti autori hanno criticato il progetto per la completa mancanza di filtri contro errori e vandalismo; dall’altro lato, i sostenitori di Wikipedia hanno replicato che la logica wiki è tende facilitare le correzioni piuttosto che ad impedire gli errori. Si tratta, naturalmente, di una controversia appassionante[12], ma un eccesso d’interesse per questo tema rischia di celare la vera innovazione comunicativa dei wiki. Come abbiamo detto fin dall’inizio, i segni, per definizione, non coincidono con i referenti. Di conseguenza, per lo studio della comunicazione, il dibattito circa l’attendibilità delle definizioni è, tutto sommato, secondario. Molto più interessante è invece la questione del modello di comunicazione di Wikipedia: che tipo di media sono i wiki? Sono assimilabili ai media orali o a quelli chirografici?

    Wikipedia oltre la distinzione oralità/scrittura

    La caratteristica comunicativamente più saliente di Wikipedia (e, in generale, dei wiki), è il fatto di non poter essere ricondotta semplicemente alla distinzione oralità/scrittura, almeno non alla versione che di tale distinzione dà Ong (1982)[13]. Sebbene ad un primo sguardo Wikipedia possa apparire come un media prevalentemente chirografico, ci sono buone ragioni per sospendere tale giudizio. La superficiale somiglianza con un’enciclopedia tradizionale non deve trarre in inganno. Wikipedia differisce dalla scrittura e dalla stampa secondo svariate dimensioni.

    Innanzi tutto, i messaggi di Wikipedia, a differenza di quelli inscritti in un qualsiasi medium chirografico, non esistono in una forma definita. Poiché non vi sono ostacoli alla trasformazione continua, le pagine sono costantemente aperte alla mutazione e, conseguentemente, non esiste una versione stabile cui fare riferimento. La logica di apertura del sistema impedisce, inoltre, che qualcuno detenga il controllo definitivo dei messaggi. In altre parole, per definizione, non esiste alcun autore delle pagine di Wikipedia, nessuno può arrogarsene la paternità e nessuno può ottenere di stabilizzare la propria versione di una definizione. A ben vedere, non si possono individuare nemmeno autori collettivi. Neppure l’insieme di tutti coloro che hanno editato un articolo può essere chiamato a ragione il suo autore, giacché esiste sempre la possibilità che qualcun altro operi ulteriori modifiche. Ne consegue, che a differenza dei messaggi inscritti su un supporto durevole (la pietra, la pergamena, la carta), i messaggi dei wiki, per conservarsi invariati, devono essere continuamente ripetuti, esattamente nello stesso modo in cui miti e leggende sono costantemente ripetuti nelle comunità orali. E come nelle comunità orali, il risultato delle continue ripetizioni tende ad essere orientato al consenso e perciò al conformismo. Poiché le tesi controverse tendono a divenire rapidamente illeggibili, esiste una precisa regola dell’etichetta di Wikipedia che sconsiglia di riportare nelle definizioni ‘“ricerche originali’”, vale a dire informazioni incerte o semplicemente innovative. Infine, la comunicazione wiki è per sua natura orizzontale e non lineare. I wiki sono orizzontali perché non esiste una chiara gerarchia tra autori e lettori. Poiché lo strumento utilizzato per leggere le pagine (il browser) è lo stesso strumento impiegato per modificarle, non è possibile distinguere nettamente emittenti e riceventi. Come nella comunicazione faccia a faccia o in quella telefonica, tutti i partecipanti sono allo stesso tempo oratori e ascoltatori. In ultimo, i wiki non sono lineari perché hanno una struttura ipertestuale e perché le modificazioni possono essere inserite in qualsiasi punto degli articoli e in qualsiasi articolo, senza alcun ordine predefinito.

    Le caratteristiche di cui abbiamo parlato potrebbero portare a ritenere che Wikipedia si configuri come la più prototipica delle comunità virtuali e che essa veicoli una forma di comunicazione di stampo decisamente orale. Non è così. Anzi, i wiki manifestano proprietà che sono del tutto incompatibili con lo stile comunicativo orale. Innanzi tutto, già a prima vista è evidente che Wikipedia è costituita soprattutto di testo. Sebbene Wikimedia (il software su cui si basa Wikipedia) consenta la gestione di contenuti multimediali, i partecipanti tendono a sfruttare poco questa potenzialità. Di conseguenza, le pagine di Wikipedia finiscono per essere composte principalmente di testo e per essere formalizzate in modo decisamente esplicito. Mentre le interazioni orali tendono ad affidare a canali impliciti come la prossemica ed il linguaggio non-verbale gran parte del loro significato, Wikipedia, aspirando ad essere un’enciclopedia, è votata alla più netta formalizzazione linguistica. Quasi tutte le pagine di Wwikipedia cominciano come ‘stub’, vale a dire come bozze di definizione, e quasi tutte procedono più o meno velocemente verso una precisione sempre maggiore. D’altra parte, è evidente che Wikipedia partecipa di quel processo di estroflessione cognitiva che secondo Giuseppe Longo (2003) è la caratteristica distintiva di tutti i media chirografici. Le definizioni di Wikipedia non sono conservate nel sistema cognitivo (nella memoria) dei partecipanti, ma sono inscritte nelle memorie elettroniche degli elaboratori su cui i wiki si basano. Tale proprietà fa sì che i messaggi dei wiki non siano dipendenti dal contesto come quelli orali: la partecipazione a Wikipedia non necessità la compresenza spazio-temporale. Chiunque può leggere e scrivere quando vuole e dove vuole. Questo fa di Wikipedia un mezzo di broadcasting (come la radio e la televisione) e permette che il numero dei suoi partecipanti sia virtualmente indefinito[14]. Inoltre, il fatto che i messaggi di Wikipedia siano salvati su memorie espandibili, fa sì che Wikipedia cresca (in termini di lunghezza e numero delle definizioni) a differenza delle culture orali che, come insegna Ong (1982), tendono ad essere omeostatiche. Infine, sebbene sia orizzontale, la comunicazione di Wikipedia non è dialogica. I partecipanti alla comunicazione di Wikipedia, editano articoli in modo collaborativo ma non dialogano come nei forum o nellea mailing list.

    Ad un’osservazione attenta Wikipedia non sembra dunque lasciarsi ridurre a nessuna delle due parti della distinzione oralità/scrittura. Per comodità del lettore, sintetizziamo in un breve schema le caratteristiche che differenziano Wikipedia dai media chirografici e dai media orali.

    Wikipedia non è un media chirografico:
    non ci sono ostacoli alla trasformazione dei messaggi;
    i messaggi non esistono in una forma definita;
    nessuno ha il definitivo controllo dei messaggi;
    i messaggi devono essere ripetuti per conservarsi;
    la trasformazione dei messaggi è orientata al consenso;
    la comunicazione è orizzontale e interattiva;
    la comunicazione non è lineare.

    Wikipedia non è un media orale:
    i messaggio sono costituiti da testo (poca multimedialità);
    i messaggi sono espliciti ed estroflessi;
    la memoria non è l’unico supporto;
    i messaggi sono indipendenti dal contesto;
    il numero dei partecipanti è virtualmente indefinito;
    Wikipedia cresce (non è omeostatica);
    la comunicazione non è dialogica.

    Media aperti e media chiusi

    Altrove[15], abbiamo usato la distinzione oralità/scrittura per giustificare le diverse forme di innovazione culturale tipiche delle comunità tradizionali e dei network moderni. In quella sede ci siamo serviti dell’opera di Jack Goody e Ian Watt (1968) per ricondurre le differenze tra culture orali e culture chirografiche alla distinzione tra media incorporati e media inscritti. Per mezzi incorporati intendiamo quei media che sono inscindibilmente legati all’interazione diretta (faccia a faccia, corpo a corpo) dei partecipanti. Con l’invenzione dell’inscrizione (e in seguito della scrittura alfabetica, della stampa e dei mezzi di broadcasting) la comunicazione si svincola dalla necessità della compresenza spazio-temporale: inscritti su supporti durevoli e autonomi dal contesto dell’interazione, i messaggi possono conservarsi nel tempo e viaggiare a grande distanza. L’utilizzo di media inscritti comporta tuttavia un costo: la necessità di convertire i discorsi aperti in testi chiusi. Una volta inscritti su un supporti durevoli, i messaggi perdono la fluidità e l’apertura caratteristiche dei discorsi orali. L’inevitabile chiusura dei testi inscritti produce conseguenze che si manifestano soprattutto nel diverso stile d’innovazione caratteristico dei network chirografici rispetto alle comunità orali.

    Da un lato, le culture orali, custodite nella memoria individuale e trasmesse attraverso l’interazione faccia a faccia, si caratterizzano per l’apertura ad un processo continuo di trasformazione e d’innovazione lineare.

    Il linguaggio è sviluppato in intima associazione con l’esperienza della comunità ed è appreso dagli individui attraverso il contatto faccia a faccia con gli altri membri. Ciò che continua a essere socialmente rilevante è immagazzinato nella memoria mentre il resto è di solito dimenticato: ed il linguaggio è il mezzo efficace di questo processo cruciale di digestione ed eliminazione sociale analogo all’organizzazione omeostatica del corpo umano (Goody e Watt, 1968, pp. 30, 31, traduzione mia).

    Dall’altro lato, le culture alfabetizzate, vincolate a documentazioni più stabili, tendono ad irrigidirsi e a mutare in modo più consapevole, discontinuo e radicale.

    Invece del discreto adattamento delle tradizioni passate ai bisogni attuali, molti individui trovano nei documenti scritti, che danno forma permanente a larga parte del loro repertorio culturale, così tante incoerenze nelle credenze e nelle categorie del pensiero che hanno ereditateo che sono costretti a un atteggiamento molto più consapevole, comparativo e critico verso la visione collettiva del mondo (Goody e Watt, 1968, p. 48, traduzione mia).

    L’impiego di media inscritti impone di affrontare un problema simile, ma opposto, a quello del Dorian Gray di Oscar Wilde (1980). Inscrivendo la propria cultura su supporti indipendenti, le società moderne rischiano di provare l’alienazione di colui che, cercando di fissare la propria immagine all’esterno, è continuamente costretto a confrontarsi con la mancanza di corrispondenza tra essenza e immagine. Mentre le culture orali sono, dunque, culture intrinsecamente aperte ad un cambiamento lineare, le culture chirografiche sono invece destinate ad evolvere attraverso il susseguirsi di stasi e rivoluzioni. Nell’articolo citato, concludevamo, dunque quindi, ipotizzando l’esistenza di un ‘“effetto di discontinuità’” proprio dei media inscritti.

    Ora, tuttavia, l’analisi di Wikipedia ci costringe a rimettere in discussione la distinzione che avevamo proposto tra media incorporati e media inscritti. È, infatti, evidente che i wiki sono media inscritti, dal momento che i messaggi che veicolano sono conservati su un supporto indipendente dal contesto, dalla memoria individuale e dall’interazione diretta. D’altra parte, è altrettanto evidente che i messaggi di Wikipedia non sono chiusi nella maniera tipica dei messaggi inscritti, giacché essi non esistono in una forma definitiva e sono invece caratterizzati dall’evoluzione fluida caratteristica dei media incorporati.

    Cominciamo ad avvicinarci alla ragione dell’imbarazzo che abbiamo incontrato nell’attribuire Wikipedia a uno dei lati della distinzione oralità/scrittura. Tale imbarazzo deriva, in gran parte, da un equivoco in cui è facile cadere considerando le differenze tra oralità e cultura: quando parliamo di oralità, tendiamo a guardare al processo della comunicazione, all’interazione orale; quando ci riferiamo alla scrittura, siamo invece portati a considerare il prodotto della comunicazione, cioè i testi scritti. Per capire la natura dei wiki, dovremo invece sforzarci di guardare contemporaneamente al processo e al prodotto. Ci accorgeremo, allora, che i media incorporati generano un prodotto più aperto (perché più flessibile) attraverso un processo più chiuso (perché limitato dal contesto spazio-temporale); mentre i media inscritti generano un prodotto più chiuso (perché cristallizzato in una forma definita), attraverso un processo più aperto (perché svincolato dalla compresenza dei partecipanti). Per quanto riguarda i wiki, infine, essi sono caratterizzati da una significativa apertura sia per quanto riguarda il processo, sia che per quanto riguarda il prodotto.

    Questa è la vera innovazione mediatica di Wikipedia:, il superamento della distinzione tra testo e discorso a favore di una forma di comunicazione che, pur essendo autonoma dal contesto spazio-temporale, non richiede la cristallizzazione dei messaggi. Non si tratta di un’innovazione limitata ai wiki. Prima dei wiki, la medesima logica aveva assicurato la diffusione e il successo del movimento del software open-source. Con Wikipedia, però, l’apertura radicale dei nuovi media compie un significativo balzo in avanti, perché esce dalla cerchia relativamente ristretta dei programmatori per offrirsi come mezzo di comunicazione tutto sommato generalista.

    Wikipedia porta alle estreme conseguenze la nozione di ‘opera aperta’ (cfr. Eco, 1962). Anticipata dalla critica letteraria post-moderna e parzialmente realizzata dalla diffusione degli ipertesti, la nozione di ‘opera aperta’ si riferisce alla capacità dei testi di offrirsi ad interpretazioni multiple da parte del lettore. Con i wiki la medesima logica di apertura si estende dal piano dall’interpretazione al segno stesso. La comunicazione è ormai irrimediabilmente aperta, in ogni sua componente, dal processo al prodotto, dal significante al significato.

    Resta, in conclusione, da chiedersi cosa consenta a Wikipedia di mantenere un’apertura così radicale pur senza trasformarsi in un caleidoscopio caotico di discorsi sconclusionati. Per rispondere a questa domanda, occorre richiamare l’attenzione del lettore su una caratteristica apparentemente minore di Wikipedia. Abbiamo rilevato, di sfuggita, che una delle innovazioni apportate dal progetto Wikipedia al concetto e alla pratica della scrittura collaborativa è la possibilità di richiamare l’intera storia delle modifiche subite da un articolo. Non solo, ma il software su cui si basa Wikipedia è anche in grado di evidenziare automaticamente le differenze tra due o più versioni del medesimo articolo. Lungi dall’essere una proprietà secondaria, la conservazione della storia della comunicazione è esattamente ciò che permette alle pagine di Wikipedia di mantenere unità e senso. Senza la possibilità di consultare in modo rapido e preciso la storia di ogni messaggio, di confrontare versione versioni diverse e di ritornare indietro ove opportuno, il destino della comunicazione wiki sarebbe inevitabilmente il disordine, il rumore ed infine il silenzio. Ed è questo che fa di Wikipedia un mezzo autenticamente post-moderno. Come scrive Umberto Eco nelle “Postille al Nome della Rosa” (1983):

    La risposta post-moderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente. Penso all’atteggiamento post-moderno come a quello di chi ami una donna molto colta, e che sappia che non può dirle “ti amo disperatamente”, perché lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia c’è una soluzione. Potrà dire: “Come direbbe Liala, ti amo disperatamente”. A questo punto, avendo evitata la falsa innocenza, avendo detto chiaramente che non si può più parlare in modo innocente, costui avrà però detto alla donna ciò che voleva dirle: che la ama, ma che la ama in un’epoca di innocenza perduta. Se la donna sta al gioco, avrà ricevuto una dichiarazione d’amore, ugualmente. Nessuno dei due interlocutori si sentirà innocente, entrambi avranno accettato la sfida del passato, del già detto che non si può eliminare, entrambi giocheranno coscientemente e con piacere al gioco dell’ironia… Ma entrambi saranno riusciti ancora una volta a parlare d’amore.


    NOTE

    1] La difficoltà di destreggiarsi tra questi opposti errori ha generato, nel campo della ricerca mediatica, un’interminabile disputa tra sostenitori del determinismo sociologico e sostenitori del determinismo tecnologico. Di questa disputa Peppino Ortoleva (1995) osserva giustamente che “nonostante l’alternarsi, in diverse epoche, di concezioni dominanti differenti, una caratteristica di questa discussione che non può sorprendere chi la studi da vicino è la sua inconcludenza… [i sostenitori delle due tesi] si affrontano, da decenni, sempre con gli stessi argomenti, e sembrano ricominciare ogni volta a discuter daccapo, a testimonianza del fatto che non di un vero dibattito si tratta, ma di una lacerazione tra due opposte «evidenze» (p. 173).
    2] Si noterà che, in questo articolo, abbiamo preferito impiegare la coppia segno-referente, piuttosto di quella significante-significato. Per non scendere in disquisizioni semiotiche, diremo soltanto che tale preferenza è dovuta al desiderio di evitare la connotazione, spesso implicita nella coppia significante-significato, per cui la relazione-distinzione semiotica sarebbe composta da una parte relativamente più concreta (il significante) ed una relativamente più astratta (il significato).
    3] Sul determinismo tecnologico si veda, tra gli altri, Wiebe Bijker e John Law (1992).
    4] Cfr. Joshua Meyrowitz (1985).
    5] Sul mito occidentale del progresso tecnologico si veda Serge Latouche (1994), soprattutto alle pp. 137-181.
    6] È comunque interessante notare che l’idea di applicare l’ipotesi dell’oralità secondaria ai media informatici si è sviluppata relativamente presto nella storia della telematica. Gli autori che citeremo non fanno riferimento alle applicazioni più avanzate di multimedialità, grafica 3D, realtà virtuale. Al contrario, paradossalmente, quasi tutti i sostenitori dell’oralità del computer si riferiscono ad applicazioni sostanzialmente testuali della galassia Internet.
    7] In Italiano nel testo.
    8] Cfr. Stuart Moulthrop (1991) per una delle prime riflessioni su come alcune forme di comunicazione telematica possano essere concettualizzate in termini di alfabetizzazione secondaria.
    9] L’obiettivo dei fondatori del Portland Pattern Repository era quello di costituire un luogo di raccolta e scambio di pattern di programmazione. Nel lessico informatico un pattern è un blocco di codice che offre una soluzione riutilizzabile ad un problema ricorrente di programmazione.
    10] Il termine ‘wiki’ deriva da una parola hawaiana che significa, appunto, ‘veloce’.
    11] Wikipedia è oggi disponibile in 211 lingue. Ciascuna edizione è largamente indipendente, anche se alcuni articoli possono essere parzialmente o interamente tradotti da un’edizione all’altra.
    12] Per chi fosse comunque interessato ad approfondire questo argomento, segnaliamo un’inchiesta curata da Jim Jiles (2005) per Nature. In essa i revisori della prestigiosa rivista scientifica hanno esaminato 42 articoli estratti da Wikipedia e dall’Enciclopedia Britannica. Inaspettatamente per gli stessi autori, i risultati della inchiesta hanno suggerito che non esistono sostanziali differenze di attendibilità tra le due enciclopedie.
    13] La distinzione oralità/scrittura come distinzione tra mezzi di comunicazione incorporati nell’interazione faccia a faccia tra i partecipanti e mezzi di comunicazione inscritti in supporti durevoli e mobili, si inserisce in un filone di storia dei media cui appartengono, oltre ad Ong, anche altri importanti studiosi quali Jack Goody e Ian Watt (1968) ed Elisabeth Eisenstein (1983).
    14] Dico virtualmente perché, evidentemente, ci sono limiti informatici (soprattutto di banda) al numero di persone che possono essere connesse contemporaneamente ai database di Wikipedia. La crescita esponenziale degli utenti negli ultimi anni ha infatti messo a dura prova l’hardware di Wikipedia che necessità di un costante aggiornamento ed ampliamento.
    15] Nell’articolo “Verba Volant, Scripta Manent: The Discontinuity Effect of Explicit Media” in corso di revisione presso la rivista American Behavioral Scientist.


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