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    M@gm@ vol.3 n.2 Avril-Juin 2005

    LO SGUARDO ETNOGRAFICO AI FENOMENI ORGANIZZATIVI: APPUNTI SULLO STATO DELL'ARTE DELL'ETNOGRAFIA SOCIALE


    Maria Serena Di Gennaro

    Diploma di laurea in Scienze dell'Educazione; svolge attività di analisi delle competenze professionali richieste agli operatori culturali; di progettazione e monitoraggio di progetti formativi ad essi rivolti.

    All'interno del presente contributo vorrei focalizzare l'attenzione sui cosiddetti approcci "morbidi" allo studio delle organizzazioni che tagliano trasversalmente i campi epistemologici di diverse discipline, dalla sociologia all'antropologia, dalla psicologia alla filosofia. Un utile punto di partenza per orientarsi tra i vari paradigmi teorici proposti è la mappa concettuale proposta da Bonazzi all'interno dell'opera Storia del pensiero organizzativo (2000). L'asse delle risorse simboliche è incrociato con l'asse soggetto-oggetto, ottenendo, in tal modo, due distinte famiglie d'approcci allo studio dei fenomeni organizzativi. Focalizzando l'attenzione sui fattori "oggettivi", esistenti, cioè, al di fuori della mente dell'individuo, è identificato l'approccio del culturalismo; focalizzando l'attenzione, invece, sulle variabili interne alla mente stessa dell'individuo, è identificato l'approccio cognitivista.

    In entrambi i casi, sono i soggetti stessi ad attivarsi per conferire senso e significato ai contesti organizzativi nei quali sono inseriti e agiscono; tuttavia, si tratta di due punti di vista antitetici per il potere attribuito al soggetto stesso. La cultura può essere intesa come un patrimonio di norme, di valori, di significati oggettivamente codificati, che ha, cioè, sede stabile al di fuori dei singoli individui e, anzi, al quale questi devono conformarsi, oppure come la risultante dei processi cognitivi di conferimento di senso che hanno sede privilegiata all'interno dei soggetti. Secondo questo secondo approccio, "l'esterno è vuoto, esiste solo l'interno" (Zan 1998) è la frase che meglio esprime la posizione di base da cui partire per comprendere la posizione del più significativo esponente dell'approccio cognitivista, Karl Weick, che ha esposto il suo pensiero nel noto volume The Social Psychology of Organizing (1969). L'organizzazione perde la sua densità materiale per diventare "un corpo di pensiero pensato da pensatori pensanti" (Weick 1979), in altre parole l'organizzazione non esiste in quanto realtà fisica, ma in quanto mantenuta in vita dai processi d'attivazione cognitiva dei suoi membri. Questi "pensando per" l'organizzazione, le danno forma, la modellano, le conferiscono senso, rendendola un flusso d'esperienza significativa. Organizzare è conferire senso; conferire senso è creare.

    L'immagine dell'individuo che tratteggia Weick è molto forte e suggestiva. Ciascun soggetto è costantemente innovatore e creatore, impegnato continuamente nella vitale attività di modellare l'ambiente in cui vive. Le organizzazioni sono, dunque, il frutto dell'attività cosciente e intenzionale degli individui che, facendone parte, la creano. Si tratta di una posizione, sul piano della psicologia sociale e cognitiva e della sociologia, non molto distante dall'approccio fenomenologico che propone la ricerca dei "fondamenti" dei fenomeni, ovvero l'individuazione di quel percorso che dall'oggetto consente di risalire ai presupposti soggettivi della sua struttura teorica (Papi 1982). Organizzare e organizzazione assumono pienamente il significato attivo del verbo inglese organizing proposto da Weick e discendono chiaramente dalla posizione filosofica propria della fenomenologia husserliana che sottolinea la genesi "trascendentale" del mondo, ovvero la sua costituzione nella soggettività degli individui.

    Il passaggio successivo, che vede la soggettività rovesciarsi nell'oggettualità del mondo, si ritrova puntualmente anche in Weick. Una volta che i "pensieri" e i processi cognitivi degli individui hanno "attivato" il loro campo d'esperienza, l'ambiente assume tutta la concretezza del vincolo e del condizionamento, retroagendo sui soggetti stessi che lo hanno creato e pretendendo di contribuire ai successivi processi di organizing con un effetto cumulativo crescente. Quest'aspetto può essere identificato come il primo punto debole dell'approccio cognitivista di Weick. L'autore dedica tutta la sua attenzione a delineare i processi di genesi dei fenomeni organizzativi, ma, poi, si trova legato nel momento in cui deve affrontare le strategie e le modalità cui gli individui devono far ricorso per gestire, senza soccombere, questa massa di "datità oggettuale".

    In secondo luogo, quale collante può essere dato a una molteplicità di processi cognitivi creatori di senso e attivatori di ambienti di esperienza? La democraticità dei processi di conferimento di senso deve avere un limite, imposto dalla necessità di modellare un'unica realtà organizzativa, comune a tutti gli individui che contribuiscono a mantenerla in vita. I processi creativi delineati inizialmente da Weick si ridimensionano e si configurano, più realisticamente, come processi volti a integrare e a implementare un originale processo autenticamente innovatore, che s'identifica con il centro di potere. In qualche modo, allora, per ciascun individuo, attivare flussi di senso implica l'accettazione di un ordine che ha sede al di fuori della propria soggettività. I processi di creazione si accompagnano, dunque, a quelli di interpretazione, di conferimento di significato, di adattamento, di gestione di un patrimonio valoriale e normativo già esistente.

    A partire dall'individuazione di questi limiti, l'approccio culturalista trova una maggiore e più piena validità. Le organizzazioni possono essere lette come delle "tribù", con i propri assunti e le proprie convinzioni profonde, con i propri simboli e i propri rituali, che utilizzano e gestiscono risorse simboliche per definire la propria identità e la missione che ne impone l'esistenza.

    La cultura è definita efficacemente da Piccardo e Benozzo (1996) come un "continuo processo di definizione della realtà in cui i soggetti sono impegnati". Tale processo si sostanzia di scambi intersoggettivi tra i soggetti di simboli, di conoscenze sedimentate e stratificate, di modelli di riferimento, di schemi di percezione e interpretazione della realtà, di codici e norme, anche non scritti (Piccardo e Benozzo 1996). L'esito di questo processo di creazione, di costruzione e di interpretazione è di dare forma a un corpus di principi di fondo e "assunti di base" (Schein 1985) ai quali rivolgersi sia ogni qual volta che ci s'interroga sulle ragioni dell'esistenza dell'organizzazione e sul senso della sua missione sia per raffigurarsi dei criteri-guida dei propri processi cognitivi e delle proprie azioni all'interno delle organizzazioni. Inoltre, la caratteristica cruciale di tale corpus è di sedimentarsi, di essere, cioè, dato talmente per scontato da non essere più esplicitamente richiamato negli scambi intersoggettivi all'interno delle organizzazioni, agendo, invece, in maniera tacita e pervasiva. La cultura si manifesta negli artefatti, nei valori espliciti e negli assunti di base (Schein 1985), oltreché in una molteplicità di oggettualità con valenze simboliche che rappresentano gli indizi e i segni a partire dai quali il ricercatore può tentare di accedere al "cuore culturale" dell'organizzazione per ricostruirlo e portarlo alla luce.

    Lo sguardo etnografico nasce all'interno della disciplina antropologica, trovando, al tempo stesso, spunti per svilupparsi nell'ambito sociologico.

    Particolarmente rilevanti sul piano etnografico sono l'approccio dell'interazionismo simbolico e quello etnometodologico. L'etnografia assume, dunque, una chiara valenza sociale ed è volta allo studio delle "cornici simboliche" o frames (Goffman 1969) che consentono di inquadrare la realtà e di conferire significato alle interazioni sociali e al mondo oggettuale quotidiani. Per quanto riguarda il primo approccio, centrale sul piano etnografico è il concetto di interazione simbolica (Blumer 1969) in quanto è attraverso l'interazione sociale tra i soggetti che emergono i significati da attribuire alla realtà nella quale si è inseriti. La conseguenza metodologica di tale impostazione teorica è nota come grounded theory (Glaser e Strauss 1967). La discesa sul campo si configura come il punto di partenza di questa ricerca etnografica, di tipo prettamente qualitativo, volta a portare alla luce i processi di interazione sociali attraverso i quali gli individui selezionano la lettura simbolica da conferire a determinate porzioni di realtà.

    L'approccio etnometodologico punta alla problematizzazione del senso comune, che Jedlowski (2002) ha definito come quello che ciascuno crede che tutti gli altri credono. In particolare, l'ordine sociale che vige all'interno delle organizzazioni è il risultato di un accordo tacito, ormai talmente automatizzato da sedimentarsi al livello del senso comune, che gli individui perpetuano attraverso il mantenimento di condizioni quali la fiducia reciproca, le aspettative, le norme, i modelli di interazione, le pratiche conversazionali. I concetti teorici portanti dell'approccio etnometodologico sono individuati da Garfinkel (1967) nella indicalità e nella riflessività. Ogni atto ha un significato soltanto alla luce del contesto in cui è inserito e sussiste una stretta relazione riflessiva tra l'azione e il commento che ne dà l'agente stesso. Tale commento può assumere la forma di un gesto, di uno stato emotivo, di parole, che possono apparire insignificanti a un occhio poco esperto. Per questo motivo, secondo gli etnometodologi, occorre partire dai "nativi" stessi di un contesto interattivo e sociale e basarsi sui loro resoconti (account) e narrazioni per ricostruire il quadro di riferimento simbolico-culturale. L'analisi dell'interazione non verbale e delle conversazioni diventano, così, le chiavi di accesso allo studio della vita quotidiana delle organizzazioni.

    Di seguito riporto, per brevi cenni, alcuni esempi di linee di ricerca delineate in ambito organizzativo, che focalizzano la loro attenzione sui fattori strutturali e simbolici strutturanti la cultura organizzativa.

    All'interno delle organizzazioni volte al lavoro produttivo, anche alla luce dei suggerimenti forniti da Piccardo e Benozzo (1996), possono essere individuate alcune aree problematiche da indagare quali i rapporti tra cultura formale e cultura informale, i rapporti tra i vari gruppi sociali e professionali, i rapporti tra line e staff, le strategie di delineazione dei percorsi di carriera e di promozione gerarchica, il rapporto tra ricompense formali e informali, le modalità di trasmissione della cultura organizzativa. Quest'ultimo aspetto è stato studiato, secondo l'approccio etnometodologico, da Lynne Zucker ed è stato da lei descritto nell'articolo Il ruolo dell'istituzionalizzazione nella persistenza culturale (1977). La realtà è letta come il risultato di un processo di costruzione sociale e occorre assumere il punto di vista dei soggetti per ricostruirla, attraverso lo studio delle interazioni discorsive e delle contrattazioni di significato tra i soggetti.

    Un secondo esempio di ricerca etnografica condotta in ambito organizzativo ci è offerto dall'articolo pubblicato da Van Maaneen (1986). Lo scopo dell'etnografia organizzativa è definito dall'autore come quello di "scoprire e spiegare i modi in cui gli individui inseriti in specifici ambienti di lavoro arrivano a comprendere, a spiegare, a influenzare e a gestire le situazioni quotidiane in cui sono immersi". L'attenzione viene conferita, pertanto, ai rituali, alla struttura delle relazioni tra gli attori, alla mappatura del territorio, alle strategie di affermazione dell'autorità del corpo organizzativo che sostanziano il comportamento e le relazioni intersoggettive e che si presentano come chiavi di accesso per l'emersione dei valori e dei codici di significato del campo organizzativo attivato dagli attori sociali.

    Una fiorente branca degli studi etnografici in ambito organizzativo concerne l'estetica (Bruni 2003), ovvero lo studio di quel livello della cultura che Schein definisce come rappresentato da "artefatti", che vanno a identificarsi, per lo più, con l'articolazione e la strutturazione degli spazi interni ed esterni di un'organizzazione intesa come edificio fisico. Larsen e Scultz (1990) inaugurano, con il loro studio sul Ministero degli Interni danese, l'approccio etnografico allo studio del setting organizzativo (Piccardo e Benozzo 1996), che focalizza la sua attenzione su aspetti strutturali quali la forma degli edifici, l'articolazione degli spazi interni e le strutture divisorie, la distribuzione degli spazi secondo le qualifiche e le gerarchie professionali, l'abbigliamento e l'arredamento. Gli artefatti si configurano, infatti, come lamaterializzazione di un patrimonio culturale tacito e condiviso di simboli e di significati.

    Culture aziendali improntate a integrazione, frammentazione e differenziazione determinano dinamiche organizzative, di gestione delle risorse umane e dei rapporti interpersonali, di configurazione dei processi decisionali, di organizzazione dei flussi comunicazionali, di emersione della leadership, di strutturazione dei gruppi di lavoro, di celebrazione dei successi e di gestione dei fallimenti radicalmente differenti (Martin 1992). Queste dinamiche si configurano come tracce e indizi che, al di là dei valori esplicitamente professati dall'organizzazione, consentono di attingere all'assetto culturale effettivo dell'organizzazione stessa. Secondo Martin (1992), una stessa cultura organizzativa può prestarsi a differenti letture, consentendo, così, al ricercatore etnografico di delineare una "mappatura culturale" del contesto organizzativo per gruppi dominanti e gruppi dissidenti, per centri di potere perfettamente integrati nell'assetto organizzativo e contro-poteri più o meno accentuati.

    Diversi sono gli obiettivi promossi da uno studio etnografico. Questo può, per esempio, smascherare un assetto culturale ufficialmente ostentato come improntato all'uguaglianza e alla cooperazione, può identificare i processi sociali e simbolici messi in atto dai centri di potere per ottenere il consenso e promuovere la legittimazione del proprio operato, può far emergere i processi di accettazione tacita e di integrazione nella cultura organizzativa portati avanti dagli "esperti" nei confronti dei nuovi arrivati. L'osservazione e l'intervista discorsiva si pongono come le principali metodologie di ricerca etnografica che, utilizzate in maniera combinata, consentono di assolvere all'esigenza di circolarità riflessiva tra atto e commento sostenuta da Garfinkel. L'osservare e il raccontare sono intimamente connessi; l'uno spiega e approfondisce l'altro. I fatti osservabili possono, dunque, essere anche "ascoltati" perché "descritti" in modo verbale o non verbale dagli agenti, così come le parole e le frasi sono rese interpretabili in modo più chiaro e trasparente dall'osservazione dei gesti che le accompagnano. A un livello macro, lo stesso contesto entro cui ci si muove ha la funzione di commento delle dinamiche sociali, in quanto si presenta come cornice interpretativa densa e conferente senso. Al tempo stesso, le modalità di costruzione degli scambi conversazionali, che coinvolgono aspetti quali la gestione dei turni di parola, l'utilizzo di parole esprimenti o meno deferenza e rispetto, la scelta semantica del vocabolario, la costruzione sintattica e stilistica del discorso, si configurano come una lente di ingrandimento per inferire e osservare l'assetto culturale dell'organizzazione.

    Particolarmente interessante è, poi, lo scarto tra quanto osservato e quanto detto dagli intervistati, soprattutto se appartenenti a gruppi sociali o professionali molto distanti. Inoltre, la raccolta e lo studio di documentazione visiva, quale fotografie, mappe spaziali e piantine, può ben supportare lo studio degli artefatti dell'organizzazione secondo l'approccio dell'estetica organizzativa. Ad esempio, la tipologia e la disposizione degli arredi di un'aula scolastica o di un ufficio sono degli indizi evidenti del tipo di scambi relazionali o dei processi di discussione e di presa di decisione promossi tra gli agenti organizzativi. Lo studio del campo d'azione consente, pertanto, di cogliere i processi sociali sottostanti la sua attivazione e interpretazione.

    La comunicazione del rapporto etnografico e dei criteri che ne sono alla base ai soggetti organizzativi che hanno contribuito alla sua stesura può mettere in atto pratiche di auto-riflessione sulle modalità privilegiate di conferimento di significato, oltreché fornire loro strumenti adeguati per attuare processi sistematici di auto-osservazione e auto-rilevazione delle strategie di costruzione e de-costruzione del proprio ambiente culturale e simbolico. A questo scopo l'intervento del ricercatore esterno deve essere strettamente sinergico con l'operare dei "nativi" dell'organizzazione, lasciando a questi ultimi il compito di implementare le aree di ricerca ritenute più significative o di delineare proposte interpretative alternative dei risultati, in modo tale da promuovere il passaggio da una fase di semplice disponibilità nei confronti del ricercatore a una di aperto coinvolgimento, fino a giungere a quella di autentica promozione e condivisione dei fini e degli scopi del piano teorico e operativo della ricerca etnografica.


    BIBLIOGRAFIA

    Blumer H., Simbolic Interactionism, Prentice Hall, Englewood Cliffs, 1969.
    Bonazzi G., Storia del pensiero organizzativo, Franco Angeli, Milano, 2000.
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    Goffman E., La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 1969.
    Jedlowski P., Introduzione (2002) in Schütz A., Don Chisciotte e il problema della realtà, Armando editore, Roma, 2002.
    Larsen J., Scultz M., Artifacts in a Bureaucratic Monastery in Gagliardi P., Symbols and Asrtifacta:Views of Corporate Landscape, De Gruyter, Berlin, 1990.
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    Papi F. (a cura di), Filosofie e società, 3 vol. Zanichelli editore, Bologna, 1982.
    Piccardo C., Benozzo A., Etnografia organizzativa, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996.
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    Van Maanen J., La realtà dell'invenzione nell'etnografia delle organizzazioni in Gagliardi P. (a cura di), Le imprese come culture, Isedi, Torino, 1986.
    Weick K., Organizzare. La psicologia sociale dei processi cognitivi, Isedi, Torino, 1993.
    Weick K., Cognitive Processes in Organizations in Research in Organizational Behavior, vol. I, pp.41-47, JAI Press, 1979.
    Weick K., The Social Psychology of Organizing, Addison-Wesley, Reading, Mass, 1969.
    Zan S., Logiche di azione organizzativa, Il Mulino, Bologna, 1988.
    Zucker L., Il ruolo dell'istituzionalizzazione nella persistenza culturale in American Sociological Review, n.5, vol. 42, 1977.


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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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