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    Panagiotis Christias (sous la direction de)

    M@gm@ vol.3 n.1 Gennaio-Marzo 2005

    L'ATELIER VISTO DAGLI SCRITTORI DOPO IL 1970: PERMANENZA O CAMBIAMENTO NEL LAVORO DELL'ARTISTA CONTEMPORANEO

    (Traduzione Orazio Maria Valastro)

    Véronique Rodriguez

    vrodrig@cam.org
    Professoressa di Storia dell'Arte al Collegio Ahuntsic di Montréal (Québec) dal 1999; Ph.D. in Sociologia presso l'Università degli Studi di Montréal nel 2001; Laureata in Storia dell'Arte presso l'Università degli Studi di Montréal nel 1993 e l'Università degli Studi di Rennes II Haute Bretagne, Francia, nel 1989; Ricercatrice in Storia dell'Arte del XIX e XX secolo; Membro di differenti associazioni professionali in Storia dell'Arte e in Sociologia dell'Arte (AAUC, SCE, AISLF, ARC); Collabora da parecchi anni con diversi periodici culturali del Québec e francesi.

    Con La Maison du chat-qui-pelote, Honoré de Balzac, nel 1829, inaugura un nuovo genere che sarà ampiamente seguito, introducendo l'artista come personaggio nella letteratura. Alcune di questi racconti, come Chef-d'oeuvre inconnu (1831) di Balzac, Manette Salomon (1867) dei Goncourt o ancora L'Oeuvre (1886) di Zola, sono stati l'oggetto di molti studi. Noi ci siamo ugualmente interessati a queste opere considerando in modo particolare gli atelier nei quali gli autori collocano i pittori e gli scultori. Attraverso un insieme d'opere pubblicate in Francia nel XIX secolo, molte delle quali erano state trascurate negli studi precedenti, abbiamo dimostrato come la concezione dell'atelier dell'artista istituita dai testi letterari non è propriamente caratteristica d'ogni autore (Rodriguez, 1999). Questi luoghi di creazione implicano dei tratti tipici, riprodotti costantemente da una storia all'altra, lasciando inoltre intravedere una norma. Oltre a suggerire delle costanti descrittive, l'atelier è istituito come ritratto dell'artista, evocando un'estetica moderna ed una messa in scena della condizione sociale del suo inquilino. Abbiamo d'altronde confermato che nel XIX secolo, gli autori avevano considerato le trasformazioni sociali della produzione artistica a loro contemporanee per esprimerle nel racconto (Rodriguez, 2001).

    Mettere in discussione la produzione letteraria degli anni 1960

    Le ricerche che abbiamo effettuato sulle condizioni del lavoro artistico, al di fuori della letteratura, e in modo particolare sugli atelier degli artisti, ci hanno permesso di rilevare che dal 1960, gli autori d'arti visuali hanno profondamente trasformato la pratica dell'atelier. La moltiplicazione delle esposizioni e dei musei, luogo del divenire e della consacrazione dell'opera, produce, in effetti, un cambiamento della posizione dell'artista nel campo dell'arte. L'influenza sempre maggiore d'alcuni commissari, tra i quali la figura storica più celebre è senza dubbio Harald Szeemann (Heinich e Pollak, 1989 - Heinich, 1995 - Szeemann, 1996), spinge degli artisti a ribellarsi contro la scissione intuita a partire dalla metà del XIX secolo tra la produzione e la diffusione dell'opera. Relegati nell'atelier, rispetto alla produzione, gli artisti non hanno più alcun potere sull'opera appena completata poiché esce dal suo luogo d'origine per essere affidata ad altri attori del mondo dell'arte: mercante, conservatori, commissario, collezionista, ecc. [1]

    Appare chiaramente agli artisti, negli anni sessanta, che l'atelier gli impone un ruolo preciso: essi sono quelli che producono l'opera e che si rimettono necessariamente ad altri per la sua distribuzione, all'esterno dell'atelier. Alcuni artisti si oppongono, cercando di occuparsi della diffusione dell'opera, adottando delle pratiche d'atelier trasgressive. Qualcuno rifiuta categoricamente di lavorare in questo luogo confortevole, al riparo da vincoli esterni, per produrre in funzione delle opportunità e dei luoghi d'esposizione. L'opera non è più trasferibile da un'esposizione ad un'altra, è creata per un contesto preciso. Citiamo, ad esempio, Daniel Buren (nato nel 1938) e Robert Smithson (1938-1973), due artisti che oltre all'attività pratica sostengono la loro posizione attraverso la pubblicazione d'articoli (Bure, 1979 - Smithson, 1968). L'atelier tradizionale è trasformato, in quanto luogo privato, spazio fisico di creazione fissa nel quale l'artista elabora regolarmente o saltuariamente un'opera, qualunque siano le prospettive di diffusione. Questa metamorfosi, iniziata negli anni sessanta, si presenta retrospettivamente come una revisione importante delle modalità di produzione dell'opera d'arte.

    Problema, corpus e metodo

    Siamo in grado di domandarci se gli autori, rispetto alle relazioni considerate precedentemente tra la situazione artistica sociale del XIX secolo e gli atelier fittizi della letteratura in questo stesso periodo, nei racconti sugli artisti della fine del XX secolo, prendono atto delle nuove condizioni di produzione dell'opera d'arte? Gli autori d'immaginazione, in altre parole, si sono adeguati alla realtà sociale artistica?

    Per rispondere a questo dubbio, che non sembra sia stato esplorato fino ad oggi, conservando allo stesso tempo un elemento di comparazione con le nostre precedenti ricerche, ci siamo limitati ad un insieme d'opere letterarie di lingua francese, rifiutando le traduzioni per non tradire le espressioni dell'autore. Per osservare questa messa in discussione dell'atelier abbiamo studiato unicamente dei racconti pubblicati dopo il 1970, posteriori alla trasformazione delle modalità di produzione degli artisti. Parecchi romanzi legati alla situazione delle arti visuali durante il Rinascimento sono fra l'altro diffusi solo recentemente. Li abbiamo sistematicamente eliminati dalla nostra analisi non potendo rendere conto di una riformulazione dell'atelier, poiché la storia si sviluppa in una temporalità anteriore a queste trasformazioni. La nostra raccolta d'autori si compone dunque di racconti francofoni la cui trama si situa dopo il 1970, attinenti ad un artista d'arti visuali rappresentandone il suo spazio di creazione [2]. L'insieme delle opere, fino ad oggi, comprende venti racconti.

    Abbiamo realizzato un'analisi qualitativa del contenuto dei testi letterari, al fine di analizzare le modalità dell'attività artistica, definendo delle categorie analitiche ed elaborando una griglia d'analisi mista a partire dai nostri studi sui racconti del XIX secolo. Abbiamo sistematicamente studiato le caratteristiche dei luoghi di creazione fittizi, all'interno di questo contesto metodologico, per osservare se gli autori avevano inserito, esplicitamente, le trasformazioni dell'attività o se continuavano a collocare l'artista in un processo di produzione attinente al XIX secolo.

    Analisi e interpretazione dei risultati

    Le discipline artistiche

    Conviene innanzi tutto definire le discipline artistiche, per individuare in quale ambiente questi artisti creano, poiché la diversificazione delle loro attività nella seconda metà del XX secolo, legata ai nuovi media e alla multi-disciplinarietà, sottende differenti luoghi di produzione dell'opera d'arte. Nella nostra raccolta d'autori, per la maggior parte, gli artisti dell'immaginazione sono dei pittori. Ritroviamo ciononostante un fotografo descritto come un pittore appena dotato (Bisonnette), un disegnatore/illustratore (Gervais) e qualche scultore (Benacquista, Hamelin, Kauffmann, Kokis, Nourissier, Pelletier), ma tutti questi restano spesso dei personaggi secondari rispetto al racconto. Si distinguono due eccezioni legate alla pluridisciplinarietà: Schmitt mette in scena Zeus-Peter Lama, pittore e scultore, mentre per Franz Hutting, Perec aggiunge a queste due discipline la performance con una serie di happening. Nei due esempi gli autori presentano innanzi tutto il loro personaggio attraverso la sua produzione pittorica. La figura artistica per eccellenza delle arti visuali alla fine del XX secolo è quindi quella del pittore.

    Questi artisti, che persistono nelle discipline tradizionali, sono situati in uno spazio di creazione. I pittori si suddividono in due gruppi: quelli che si rifugiano negli atelier all'interno di un edificio (Benacquista, Blondeau, Grainville, Kauffmann, Le Guillou, Le Touzé, Nourissier, Poloni, Proulx, Roumanes) e quelli che dipingono sul motivo, all'aperto (Perec, Le Guillou), nella camera mortuaria (Kokis), al Palazzo dei nani (Gervais). Gli scultori creano ugualmente negli atelier tradizionali (Benacquista, Hamelin, Kauffmann) o in luoghi all'aperto quando necessitano di maggiore spazio (Hamelin, Kokis). L'unico fotografo dell'insieme d'opere ha trasformato il suo atelier in camera oscura (Bissonnette), luogo di produzione dell'opera. Al di fuori degli atelier o dell'attività in sito, vediamo apparire al contrario un nuovo luogo di fabbricazione dell'opera d'arte, la sala d'operazione di cliniche private, quando gli artisti creano della Body art a partire dal corpo umano (Pelletier, Schmitt).

    Gli elementi invarianti dell'atelier fittizio del XIX secolo reificati?

    Il nostro studio sull'atelier nella letteratura del XIX secolo ha permesso di osservare degli elementi invarianti, analizzati nella raccolta d'autori della fine del XX secolo per verificare se si presentano sistematicamente. La difficoltà di accedere ad un atelier d'artista, rappresentato nella letteratura del XIX secolo attraverso i corridoi e i cortili da attraversare, le scale da salire, le porte da sospingere, ecc., ci aveva sollecitati a paragonare questi percorsi ad un rito preparatorio iniziatico, come altrettante frontiere da oltrepassare per predisporre l'avvicinarsi al mondo dell'arte moderna. Abbiamo rilevato che molti dei racconti pubblicati dopo il 1970 effettuano delle ellissi di questi tragitti. Si entra più rapidamente negli atelier passando direttamente dalla strada allo spazio dell'artista, tranne in alcuni casi dove il percorso permette particolarmente d'insistere sul deterioramento dell'edificio (Kauffman, Le Touzé, Proulx).

    Gli atelier dei pittori si situano generalmente in altezza, ma non sempre nelle mansarde (Blondeau, Grainville, Kauffmann, Kokis, Lê, Le Guillou, Le Touzé, Perec, Proulx), qualche volta anche al pianterreno (Benacquista, Nourrissier) o nel sotto suolo per i giovani artisti (Kokis). I luoghi di creazione degli scultori restano al pianterreno degli edifici, tranne che in Kauffmann dove l'artista scolpisce degli angeli nel soffitto di una cappella sul tetto della Chiesa di Saint-Sulpice a Parigi. Sembra sia la localizzazione dell'atelier, in questo caso particolare, che abbia definito i soggetti delle sculture, in un edificio religioso e tra cielo e terra. Gli atelier del XX secolo sono anch'essi raramente situati in edifici nascosti nel tessuto urbano. Gli autori li situano geograficamente, indicando il nome della città e quello della strada (tranne Le Touzé, Roumanes). Parecchi degli atelier sono localizzati nelle periferie urbane, poco accessibili senza automobile, nonostante le indicazioni fornite per raggiungerli.

    L'atelier rimane, ciononostante, uno spazio fuori del mondo, come nel XX secolo. E' un luogo di rifugio e di ritiro nel quale l'artista si trincera (Blondeau, Grainville, Kauffmann, Kokis, Lê, Le Guillou, Le Touzé, Nourissier, Poloni, Proulx, Roumanes). Quest'isolamento dell'artista nell'atelier è accentuato in molti racconti attraverso la sua localizzazione in un'impasse (Benacquista, Le Guillou, Kauffman, Nourissier, Schmitt). Il tempo vi sembra sospeso. Generalmente spazio di silenzio, non si sentono né i vicini né la città, salvo che la finestra non è aperta (Le Guillou, Proulx). Ritroviamo al contrario in tutti i racconti (tranne in Kauffman a causa della localizzazione degli atelier nella chiesa), un telefono nell'atelier, telefono che suona inopinatamente. Il mondo esterno alla creazione non è quindi bandito quando l'artista occupa il suo spazio; appare piuttosto come un'irruzione alla quale l'artista non risponde sempre.

    Tutti gli scrittori, senza eccezione, accordano un'attenzione particolare alla luce nell'atelier, caratteristica già constatata nella letteratura del XIX secolo, messa in relazione allora alla posizione moderna degli artisti che rifiutavano la luminosità del nord. Gli autori della nostra raccolta d'opere al momento in esame situano sempre la sorgente luminosa, che giunga da una finestra, da una vetrata, da una porta-finestra scorrevole, da un lucernario, da una finestra a mezza-luna, da un pozzo di luce, da una candela, da una lampada, da luci direzionali, da riflettori, da neon, ecc. Tutti gli artisti, tuttavia, non lavorano con la luce naturale (Benacquista, Kokis, Le Guillou). Alcuni chiudono le tende (Kokis, Le Guillou, Le Touzé), fermano le tendine (Kokis), filtrano la luce (Kauffmann) o fanno risolutamente chiudere le vetrate (Le Guillou). I raggi del sole, in altri atelier, non penetrano poiché i vetri sono sporchi (Kokis) o perché la vegetazione è troppo densa (Le Guillon, Nourissier). Abbiamo riscontrato, similmente alla letteratura del XX secolo, che il lavoro alla luce artificiale caratterizza ugualmente una posizione estetica, gli astrattisti tendono maggiormente rispetto ai figurativi a dipingere alla luce elettrica.

    Abbiamo osservato, nell'insieme delle opere esaminate, che gli strumenti dell'attività artistica sono descritti in misura minore rispetto al XIX secolo. Ritroviamo i cavalletti, le spatole, i recipienti, gli stracci, i pennelli, nient'altro. Assenti le essenze, poggia-mani, scale, contenitori di disegni, pedane, manichini, carboncini, matite, gessetti, forbici, bulini, piedistalli, bacinelle d'acqua, taniche di terra e casse di gesso fino, l'argilla, la creta, ecc. Vi è un'inflazione inferiore nel lessico della letteratura del XX secolo, tranne quando una tecnica artistica meno conosciuta è descritta, come la scultura su metallo (Hamelin, Kokis) o ancora quando si tratta di mostrare che l'artista vive nel disordine (Benacquista, Le Guillou, Proulx). Questa caratteristica degli atelier della fine del XIX secolo è ancora poco presente. Gli autori mostrano piuttosto il distacco degli artisti verso il loro stesso ambiente insistente sui pennelli essiccati, i giornali stracciati, gli stracci macchiati, la polvere accumulata, ecc. (Benacquista, Le Guillou). Quest'allontanamento dal lessico specializzato ci sembra direttamente collegato alle tecniche artistiche degli artisti della fine del XX secolo, ma anche alle trasformazioni delle loro attività. Gli artisti si riforniscono ormai raramente nei magazzini specializzati, frequentando piuttosto le chincaglierie, i centri di riciclaggio, le discariche pubbliche, ecc., tanto che questo si ripercuote sul vocabolario dell'attività che sembra, a sua volta, meno specifico.

    Se gli strumenti svaniscono dagli atelier letterari, ritroviamo invece altrettanti odori. Presso i pittori, sono principalmente quelli della pittura (Benacquista, Kauffmann, Nourissier, Proulx), della trementina (Blondeau, Grainville) al punto da causare la nausea (Kokis), di tele bruciate oppure di cadaveri o carne marcia (Le Guillou, Proulx). Presso gli scultori, si avverte l'olio e il grasso (Benacquista, Kokis), collegati agli oggetti metallici che vi si trovano. Non ritroviamo invece nessun effluvio di poltrone in cuoio, diverse specie di tacco e incenso, profumi d'Oriente del XIX secolo. Sono rimasti solo gli odori legati al mestiere dell'artista.

    Abbiamo rilevato inoltre, negli atelier del XIX secolo, la presenza di un arredamento che comprendeva sistematicamente uno specchio, un paravento, un divanetto e una stufa. Lo specchio e il paravento, negli atelier letterari successivi al 1970, sono quasi scomparsi. Il primo, che serviva a verificare la precisione della rappresentazione pittorica in prospettiva, ha completamente perduto la sua funzione una volta messo in discussione il paradigma dell'imitazione nella pittura. L'aspetto rivelatore dello specchio persiste nonostante Grainville, dove il maestro dell'atelier lo scruta per sorvegliare i suoi allievi. Il paravento è quindi relegato nel dimenticatoio. E' rimpiazzato da biblioteche, scorte di tele, scaffali, armadi, nella sua funzione di dividere lo spazio architettonico della residenza dell'atelier, nei racconti successivi al 1970... una mobilia funzionale per sistemare del materiale legato alla creazione. Il paravento aveva inoltre la funzione di nascondere le nudità del modello, aveva un ruolo particolare nelle vicende sessuali. Se il paravento non ha più quest'utilizzazione, non è certamente perché l'atelier è diventato un luogo casto. E' il divano che lo ha sostituito, luogo sessuale dell'atelier per eccellenza. I divani, i sofà o i divanetti sono descritti e qualificati, con la stessa intensità del secolo scorso. Sono generalmente di cuoio, nero o bruno, confortevole, profondo, con cuscini… Ne troviamo in tutti gli spazi. Non servono unicamente per incontri sessuali, l'artista vi si riposa, invita ad accomodarvisi i mercanti, i collezionisti e altri visitatori. Il divano rimane per eccellenza lo spazio di socialità. La stufa a legna, al contrario, che tratteneva gli invitati nell'atelier, è assente. Modernità obbliga, si è passati al riscaldamento centralizzato, tranne in Kauffmann dove per gli atelier, situati nelle soffitte di una chiesa, l'autore osserva la presenza di un camino presso uno scultore e una stufa presso una pittrice. Gli autori conservano qualche commento sul calore, ma non prevalgono altrettanto che negli atelier della boheme del XIX secolo dove quest'elemento permetteva di cogliere la fortuna o la precarietà del suo occupante. Solo Le Guillou, in tutti i racconti analizzati del XX secolo, si preoccupa del calore nell'atelier e rileva regolarmente la temperatura nello spazio di creazione, forse perché localizza Erich Sebastian Berg in paesi del nord dell'Europa, dove il sole e il calore non sono sempre presenti.

    Nuove caratteristiche collettive

    Se la comparazione degli atelier artistici del XIX secolo con quelli della fine del XX secolo permette di considerare la trasformazione o l'obsolescenza di alcuni invarianti, scopriamo d'altronde che gli scrittori hanno adattato senza eccedere l'atelier fittizio alla produzione degli artisti del loro tempo apportandone delle modifiche inedite. Queste metamorfosi degli atelier non sono proprie ad ogni scrittore, possiamo quindi trarne nuovamente delle ricorrenze da un racconto all'altro.

    Invece di far sparire l'atelier, come dimostrano le attività artistiche dagli anni sessanta, gli scrittori li hanno invece moltiplicati. La proliferazione degli atelier non è tuttavia l'invenzione degli autori. Nella pratica artistica del XIX secolo accadeva regolarmente che dei pittori o scultori possedessero parecchi atelier simultaneamente, al fine di dare seguito alle richieste ricevute. Gli artisti occupavano allora un luogo, oltre al loro spazio personale, specificamente dedicato alla realizzazione dell'opera commissionata, di cui si sbarazzavano una volta consegnata. Gli scrittori della fine del XX secolo riprendono questa pratica di moltiplicazione degli atelier, rendendoli tuttavia non una situazione temporanea ma permanente. E' rilevante che l'artista fittizio non si limiti più, in effetti, ad un unico spazio, al quale ricorrere periodicamente poiché quest'ultimo costituirebbe la chiave di volta della sua creazione. I personaggi artistici possiedono diversi luoghi contemporaneamente, che frequentano secondo i mezzi e le tecniche di creazione che privilegiano. Ciò testimonia in parte l'adattamento dell'artista fittizio alla realtà sociale artistica. Gli artisti d'arti visive hanno eliminato, in effetti, l'atelier fisso per adottare altre modalità di produzione che riposano principalmente sul nomadismo, la fugacità e la collaborazione. Gli artisti contemporanei, adattandosi precisamente ad ogni contesto espositivo al quale sono invitati, possono possedere simultaneamente diversi atelier mentre realizzano molti progetti, eliminandoli tuttavia dopo l'inaugurazione pubblica dell'opera. L'attività stabilisce la moltiplicazione dei luoghi di creazione ed è ciò che ritroviamo nella letteratura della fine del XX secolo. Questa situazione era pressoché prevista per gli scultori fittizi a causa delle attrezzature specifiche richieste per le differenti tecniche e della polvere prodotta durante le fasi di produzione. Lo possiamo constatare in Marc Carrière, che pratica la saldatura sulle sue sculture in metallo in una vecchia caserma dei pompieri e che pratica il taglio diretto sugli alberi nei boschi vicino al suo chalet (Proulx). I pittori fittizi, al contrario, moltiplicano gli spazi di creazione a seconda dei mezzi o delle dimensioni delle opere. Perec, per esempio, evidenzia che l'artista franco-americano Franz Hutting lavora in cinque atelier: un grande atelier, nel suo appartamento a Parigi, dove si svolgono gli happening; un altro per i dipinti in una piccola stanza che ha fatto sistemare nella loggia dello stesso appartamento; un terzo in una casa a Gattières, vicino Nizza, per le grandi tele; un quarto in Dodogne, in un castello, per le sculture monumentali; e, infine, l'ultimo in un loft a New York, per i disegni e le incisioni. L'artista investe differenti luoghi a seconda dei vincoli tecnici e dei suoi progetti ma, al di là dell'aspetto della produzione dell'opera, appare ugualmente che la scelta delle città privilegiate s'inscrive anch'essa all'interno di reti artistiche. L'occupazione dello spazio fisico e geografico dipende dunque dal suo mestiere.

    Anche se un artista produce eccezionalmente delle opere per il mondo dell'arte, come nel caso dell'Adam Bis di Zeus-Peter Lama, l'autore non si allontana dall'atelier. Al contrario, Schmitt descrive l'appartamento di Tazio Firelli che un'operazione chirurgica ha trasformato in opera d'arte, secondo le caratteristiche dell'atelier moderno dello scultore: al pianterreno, accesso diretto all'esterno, molta luce naturale, biancore dello spazio, presenza di un divano… Come se queste descrizioni non fossero sufficienti, vi si descrive l'artista curare l'operato con le sue mani, perfezionando la sua ultima creazione. Quest'opera si situa ancora in un atelier quando avrebbe potuto permettere di predisporre un altro luogo per accentuare questa marginalità creatrice.

    Oltre la moltiplicazione di questi atelier fisici, qualche autore definisce atelier dei quaderni di disegni e dei carnet nei quali l'artista trascrive delle note o abbozza a grandi tratti. Le Guillou, per esempio, quando incorpora delle note scritte dal suo personaggio Erich Sebastian Berg, le intitola l' "atelier portatile". Queste note e schizzi proseguono la creazione e introducono chiaramente l'idea di una mobilità dell'atelier, al di fuori di qualsiasi struttura: muri, vetrate, cavalletti, ecc. Diventa atelier qualsiasi luogo di creazione, qualunque sia la sua forma, appena un artista lo individua come tale.

    Abbiamo ugualmente osservato, oltre alla proliferazione degli atelier, l'apparizione di modalità di creazione collettiva, ciò non figurava nemmeno nella letteratura del XIX secolo. E' specialmente quando gli scrittori immaginano delle opere che si allontanano dalle discipline tradizionali (pittura e scultura) che la collaborazione s'impone (Pelletier Schmitt). Gli scrittori, in questo, assimilano i principi dell'arte concettuale, che si diffonde dagli anni sessanta, per la quale l'idea è primordiale; la fabbricazione dell'opera, facoltativa, può essere allora delegata ad altri. L'artista, al fine di vedere la propria idea originale realizzata, può fare appello a differenti esperti (informatici, modellisti, fotografi, incisori, cuochi, elettricisti, sarti, ecc.), subordinati ai progetti da concretizzare. Questa dissociazione tra la concezione e la produzione dell'opera, nel nostro studio dell'insieme di opere raccolte, non la ritroviamo sufficientemente tranne che nei racconti sulla Body-art, dove un personale medico importante realizza i trapianti e il trasferimento di organi da un corpo all'altro. Gli artisti, in altri testi, continuano a creare con le proprie mani, senza aiuto esterno, ciò è lungi d'essere la situazione dominante nella realtà sociale artistica contemporanea.

    L'ultimo elemento rilevante che ritroviamo regolarmente in questi racconti francofoni posteriori al 1970, concerne l'esposizione nell'atelie?????r, in altre parole la sua museificazione. Nei testi del XIX secolo, l'esposizione è esterna all'atelier. Si effettua nel Salone, ciò ha dato luogo inoltre a delle lunghe descrizioni di questa manifestazione artistica parigina dove, qualche volta ma raramente, un quadro è esposto in una vetrina. Quest'esposizione letteraria è contemporanea delle trasformazioni sociali. E' nella seconda metà del XIX secolo che si attua una dissociazione tra la produzione dell'opera, nell'atelier, e la sua diffusione, nelle esposizioni, siano esse realizzate nei musei o nelle gallerie. Per contestare il modo di esporre qualcuno dei suoi quadri, sommersi nella confusione della presentazione collettiva, Gustave Courbet (1819-1877), per primo, ha messo all'esterno dell'atelier l'esposizione individuale. Nel 1855, in uno spazio distinto che ha fatto costruire appositamente per l'occasione, il pittore esibisce il suo progetto artistico, alle porte del Palazzo delle Belle-arti dell'Esposizione Universale a Parigi. Questa posizione inaugurale di Courbet, largamente seguita, ha fatto dell'atelier il luogo d'origine dell'opera d'arte, spazio dominato dall'artista, contrariamente ai luoghi di diffusione dove dei nuovi intermediari si sono gradualmente moltiplicati tra l'opera e il collezionista, notoriamente i mercanti d'arte e i conservatori di musei.

    Rimettere in discussione il ruolo di questi mediatori negli anni sessanta spinge gli artisti a adottare delle pratiche di diffusione, nei loro stessi atelier. Li trasformano occasionalmente in opere d'arte o più semplicemente, vi organizzano un'esposizione delle loro opere. Gli scrittori esaminati se non hanno cancellato l'atelier dalle pratiche artistiche che immaginano, hanno invece inserito il suo ruolo nella diffusione delle opere, durante la vita dell'artista o dopo la sua morte. Ritroviamo, per esempio, delle esposizioni negli atelier (Grainville). Alcuni sono decisamente museificati, mausolei della memoria dell'artista. Sono generalmente conservati e custoditi da un parente, p?????er esempio, la madre dell'artista deceduto in giovane età (Benacquista) o ancora la madre dell'artista che ha rinunciato ad una carriera (Lê) e descrivono una visita guidata. L'atelier appare effettivamente come il reliquario dell'opera (Kauffmann, Le Guillou). Il luogo d'origine dell'opera diventa lo spazio per eccellenza dove mostrare il genio artistico poiché vi si origina (Kauffmann), e non ne può essere dissociato. Integrando l'esposizione allo spazio di produzione, gli scrittori sono sensibili allo spostamento operato dagli artisti nel campo della diffusione dell'arte dagli anni sessanta.

    Conclusione

    La lettura di questi racconti in lingua francese, pubblicati successivamente al 1970, ci permettono quindi di concludere che le trasformazioni della pratica artistica degli anni sessanta non è stata completamente assimilata dagli scrittori. I racconti testimoniano persino di uno scarto rispetto alla pratica sociale artistica poiché, nonostante l'apparizione di parecchie discipline e la moltiplicazione dei luoghi di creazione e di produzione che ne sono la conseguenza, pochissimi scrittori hanno eliminato l'atelier fisso nel quale l'artista crea con le proprie mani e al quale ricorre periodicamente, qualunque siano le prospettive di diffusione della sua opera.

    La presenza dell'atelier sembra sempre indispensabile agli scrittori, e ciò, per diverse ragioni. Innanzi tutto, poiché la figura dell'artista citata dagli scrittori è in maggior misura un pittore da cavalletto piuttosto che un artista numerico, un performer o ancora un videasta, la disciplina del creatore fittizio rimane collegata, tradizionalmente, all'atelier. Si situa allora il pittore nello spazio previsto, riconoscendo così che l'atelier contribuisce ad attribuire lo statuto d'artista al suo occupante (Bernier e Perrault, 1985). Attribuendo delle funzioni tradizionali a questo spazio, siano esse architettoniche o sociali nel suo ruolo d'intermediario con gli altri mediatori del mondo dell'arte, per esempio, gli autori precisano allora le aspirazioni e le relazioni del personaggio. L'atelier sembra necessario agli scrittori per proteggere il gesto creatore e continuare ad ammantarlo di mistero, in uno spazio chiuso al mondo esterno, dove l'opera viene alla luce. L'atelier appare, infine, ancora indispensabile come testimonianza del genio non riconosciuto dell'artista scomparso troppo presto, l'atelier si mostra racchiudendo le diverse fasi del progetto artistico del suo recente inquilino, delle bozze di opere ultimate. Se l'atelier sussiste, ciononostante, è invece multiplo e gli scrittori intendono la sua concezione rispetto ai diversi supporti che prendono parte al processo creativo, come i carnet di schizzi, per esempio. L'atelier, come nel XIX secolo, rimane un'estensione della persona dell'artista e partecipa alla raffigurazione della sua immagine in trasformazione.


    NOTE

    1] Sul ruolo dell'atelier rispetto all'esposizione, vedi Véronique Rodriguez, "L'atelier et l'exposition, deux espaces en tension entre l'origine et la diffusion de l'œuvre", Sociologie et sociétés, vol. 34, n.2, automne 2002 (publié à l'automne 2003), p.121-138.
    2] Il censimento delle opere è stato effettuato a partire da cataloghi di biblioteche, cataloghi di editori, suggerimenti dei presenti alle comunicazioni e d'amici grandi lettori che ringraziamo tutti.


    BIBLIOGRAFIA

    Balzac Honoré de, "La Maison du chat-qui-pelote" (1829), dans La comédie humaine: Études de moeurs: scènes de la vie privée, édition publiée sous la direction de Pierre-Georges Castex avec, pour ce volume, la collaboration de Pierre Barbéris, Madeleine Fargeaud, Anne-Marie Meininger, Roger Pierrot, Maurice Regard, Jean-Louis Tritter, Paris, Gallimard (Bibliothèque de la Pléiade), 1976, vol.1, p.23-94.
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    Bernier L. et Perrault I., L'Artiste et l'œuvre à faire, Québec, Institut québécois de recherche sur la culture, 1985, p.512.
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