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  • Letterature e forme di socializzazione
    Panagiotis Christias (sous la direction de)

    M@gm@ vol.3 n.1 Gennaio-Marzo 2005

    LA VISIONE SOCIOLOGICA DI CONSTANTINOS KAVAFIS: POLITICA, RELIGIONE, RELIGIOSITÀ


    (Traduzione Paolo Coluccia)

    Panagiotis Christias

    panagiotischr@yahoo.fr
    Ricercatore presso il CEAQ (Centro di Studi sull'Attuale e il Quotidiano, Paris V), Università René Descartes, Paris5-Sorbonne; Insegna all'Istituto sul Lavoro Sociale e la Ricerca Sociale (ITSRS), Francia.

    "C'est certes une tâche difficile d'éduquer les étudiants au regard sociologique, duquel tout dépend et qui consiste dans tout phénomène social particulier à séparer sur-le-champ la forme sociale du contenu matériel. Si l'on arrive une fois à avoir ce regard, alors les faits sociologiques ne nous apparaissent pas si rares à trouver."
    Georg Simmel (Lettera a Célestin Bouglé del 22-11-1898, citazione di Werner Gephart in 'Derive autour de l'oeuvre de Michel Maffesoli', L'Harmattan, Paris, 2004)

    Religione e politica sono le due forme principali di riunione e d'accomunamento degli uomini nel corso della storia. Comprendere il modo in cui una terza forma rende possibile il passaggio dall'una all'altra, è lo scopo di questo articolo. La poesia di Constantinos Kavafis [1] è su questo punto esemplare. La lettura del materiale storico da parte del poeta alessandrino ci permette di analizzare le tre forme ed i loro singolari intrecci.

    Politeismo, religiosità e mistica

    Kavafis è un poeta-storico. Egli stesso si definisce come tale. Dunque, al fine di comprendere il significato delle sue poesie, dobbiamo leggerle nel senso storico di due epoche: dapprima, in quello dell'epoca nella quale sono scritte e, dopo, in quello dell'epoca alla quale si riferiscono. Kavafis scrive dalla fine del diciannovesimo secolo fino al 1933 ad Alessandria, ancor sempre impregnata dallo spirito greco. Ma le sue poesie si riferiscono all'Alessandria mitica del periodo ellenistico. Nei due casi osserveremo uno scontro: tra il monoteismo e il politeismo. Se si preferisce, si può dare a questo scontro sociale un altro nome, più erudito, quello tra Ragione sociale e Rivelazione. Ma il poeta non si pronuncia con dimostrazioni logico-formali. Si accontenta di vedere e descrivere il modo in cui la vita sociale stessa tratta di questa antinomia. In altre parole, descrive le forme mediante le quali la vita trova il compromesso necessario delle forze antagonistiche, compromesso necessario per la sua perpetuazione.

    La vita finisce sempre per collegare ciò che è dogmaticamente contraddittorio e distinto. Nel caso della relazione tra la ragione e la rivelazione, la discussione sociale segue il cammino delle relazioni concrete degli individui concreti nelle comunità cristiane e pagane, e questo fin dall'epoca del cristianesimo primitivo. Questa relazione si traduce in linguaggio sociologico come il problema della doppia appartenenza. Ecco come questa doppia appartenenza o questa doppia vita è rivissuta (nacherlebt) da Constantinos Kavafis in una poesia del 1929, Myrès, Alessandria, nel 340 dopo-Cristo:

    "Quando ho saputo la brutta notizia della morte di Myrès, mi sono recato da lui, nella sua casa, benché eviti di entrare nelle case dei cristiani, soprattutto quando hanno gioie o lutti.
    Mi sono trattenuto in un corridoio; non volevo avventurarmi dentro, poiché avevo notato che i genitori del morto mi osservavano con sorpresa, forse con ostilità.
    Lo si era messo in una grande sala di cui potevo scorgere una parte, dall'angolo in cui mi trovavo. Ovunque tappeti preziosi, oggetti d'oro o d'argento.
    Ero là; piangevo in quell'angolo di corridoio. Pensavo che le nostre riunioni, le nostre passeggiate senza Myrès sarebbero state ormai scipite, che non lo avrei visto più, durante le nostre belle e voluttuose serate, a divertirsi, e a ridere, e a recitare versi con il suo senso perfetto del ritmo greco. E mi dicevo che avevo del tutto perso la sua bellezza, che avevo del tutto perso il giovane uomo che amavo così ardentemente. Alcune vecchie donne, vicino a me, si raccontavano ogni particolare dei suoi ultimi momenti: il nome del Cristo incessantemente sulle sue labbra, una croce nelle sue mani... Quindi quattro sacerdoti cristiani sono entrati nella stanza, e recitavano con fervore preghiere a Gesù o a Maria. (Non sono molto informato sulla loro religione). Certamente, non ignoravamo che Myrès era cristiano.
    L'avevamo saputo immediatamente, quando, due anni fa, si era associato a noi. Ma viveva assolutamente come tutti noi, dedito più d'ogni altro ai piaceri e spendendo per gli stessi senza tener conto, indifferente dell'opinione altrui, e partecipando volentieri alle nostre risse notturne, quando il nostro gruppo incontrava per caso nella via un gruppo opposto. Non parlava mai della sua religione. Una volta, me ne ricordo, gli abbiamo anche detto che combinavamo di portarlo al Serapeum, ma questa battuta è sembrato dispiacergli... Ah! Mi ricordo anche che, quando facevamo banchetti a Nettuno, è rimasto distaccato, deviando gli occhi... E quando un giorno uno di noi ha esclamato con entusiasmo: "Che il grande Apollo, dio pieno di bellezza, ci protegga e ci favorisca!", Myrès ha mormorato (gli altri nulla hanno inteso): "Eccetto me!"
    I sacerdoti cristiani pregavano a voce alta per l'anima del giovane uomo. Osservavo con quale cura, con quale ardente attenzione per i minimi dettagli dei riti, si preparasse questa sepoltura cristiana. E improvvisamente una sensazione sconosciuta m'invade. Sento vagamente che Myrès si allontanava da me; sento che, cristiano, si era riunito ai suoi, e che io non ero più che un totale straniero. Poi un altro dubbio mi sfiorò: se per caso la mia passione mi aveva ingannato, se non ero stato che uno straniero per lui? Mi sono gettato allora fuori dalla loro casa spaventosa. Sono fuggito precipitosamente prima che il loro cristianesimo mi afferrasse, non trasformasse la memoria di Myrès." [2]

    Il ritorno di Kavafis all'epoca ellenistica, in terra d'Oriente, in particolare ad Alessandria ma anche in Siria, l'obbliga ad entrare nello spirito di quest'epoca, della messa a morte del politeismo da parte dello spirito filosofico greco, radicalmente ateo, e dell'emergenza dello spirito cristiano, promotore di una nuova religiosità e di una nuova forza mistica d'aggregazione. Se, nelle sue poesie, Kavafis si sente profondamente cristiano, non cessa pertanto di appartenere allo spirito politeista. La poesia Ionica, scritta nel 1911, è una risposta, un grido di disperazione contro la distruzione dei templi degli antichi dèi da parte dei Cristiani di Bisanzio:

    "Benché abbiamo rotto le loro statue,
    benché le abbiamo espulse dai loro templi,
    gli dèi non sono morti in ogni caso.
    O terra di Ionia, è te che amano ancora,
    è di te che le loro anime si ricordano ancora.
    Quando una mattina d'agosto spunta su di te
    un fremito della loro vita attraversa la tua atmosfera;
    ed a volte, vaga, eterea, un'Ombra d'efebo
    sfiora con un piede leggero la sommità delle tue colline." [3]

    Quest'ombra, questo spettro d'efebo che sfiora le colline di Ionia è la voce e la via di una resistenza segreta che si eleva contro le forze della trasformazione. Esiste una mistica delle forze pagane, attaccate alla terra e che rifiutano di abbandonare i loro templi. Ciò significa che lo spirito politeistico rifiuta di scomparire, diventa linguaggio mistico, segreto, scrittura esoterica e fiamma psichica nei poeti e nei pensatori mistici che lo conservano in vita trasformandolo per inserirlo nuovamente nella vita quotidiana. È l'integrazione di questo spirito nella vita di tutti i giorni che ha dato le forme sincretistiche di un "monoteismo politeista" dove i santi della Chiesa ufficiale si sono sostituiti agli dei dello Olimpo e dove la Vergine Maria sostituisce la Vergine Atena in tutte le sue funzioni simboliche e istituenti.

    Ciò che Kavafis condanna, è lo spirito dogmatico, il puritanesimo legato ad un tentativo di conformare la società nella moralità scaturita da un'istanza statale, straniera alla vita sociale quotidiana. In breve, ciò che condanna è il dogmatismo di una religione di Stato. Così, quello che attira il sarcasmo del poeta non è un cristiano moralista puritano, ma Giuliano l'Apostata, l'imperatore bizantino che voleva instaurare nuovamente l'antica religione. Kavafis gli dedica cinque poesie: Giuliano constata l'indifferenza delle genti di Antiochia verso gli dèi (1923), Giuliano a Nicomedia (1924), Giuliano e le genti di Antiochia (1926), Non capisco (1928), Nei pressi di Antiochia (1933). Tutte e cinque rappresentano il vano tentativo intrapreso da Giuliano d'imporre un regime puritano con un ritorno alla disciplina di un ordine sacerdotale. La risposta del poeta nei suoi versi del 1923 è significativa: "Insomma, erano Greci... niente di particolare, Augusto". La società ha i suoi equilibri, la sua misura. Questa misura condizionò il quotidiano dei popoli d'oriente durante il periodo ellenistico. Il cristianesimo primitivo ha saputo integrare e rispettare quest'ordine sociale, questa misura imposta dalla vita quotidiana, in particolare a causa della sua impotenza politica. In una poesia del 1926, Una grande processione di sacerdoti e di laici, il poeta celebra la partenza definitiva dell'Apostata ed il ritorno alla religiosità cristiana, una nuova unione dove "tutte le associazioni dei mestieri sono rappresentate", ovvero, dove tutti gli antichi dèi sono presenti segretamente.

    Kavafis sente una forza mistica dietro il cristianesimo primitivo, una forza che si trasforma in rituali maestosi nelle sue poesie "bizantine", come la poesia Alla chiesa (1912), dove celebra "il nostro bizantinismo glorioso". Non è il dogma che prevale. Sono gli aspetti formali e rituali puri di celebrazione del Cristo che fondano l'unione della società cristiana. Sono "i suoi stendardi, l'argento dei suoi calici sacri, i suoi candelabri, le sue luci, le sue icone ed il suo ambone". Sono ancora "i suoi profumi d'incenso, le sue voci ed i suoi cori liturgici, la bell'imponenza dei suoi sacerdoti dalle pianete scintillanti ed il ritmo grave d'ogni loro gesto". In fondo, è la glorificazione di tutti i sensi, i cinque sensi spinti verso un'armonia performativa senza eguali. Baudelaire richiama quest'unione di tutti i sensi nelle sue Corrispondenze:

    "Come lunghi echi che da lontano si confondono
    In una tenebrosa e profonda unità,
    Vasta come la notte e come la luce,
    I profumi, i colori ed i suoni si corrispondono.

    Sono profumi freschi come carni di bambino,
    Morbidi come gli oboe, verdi come i prati,
    - e d'altri, corrotti, ricchi e trionfanti,

    Che hanno la grandezza delle cose infinite,
    Come l'ambra, il muschio, il benzoino e l'incenso,
    Che cantano il trasporto dello spirito e dei sensi."

    È l'aspetto formale del cristianesimo e non il suo contenuto dogmatico che importa al poeta sensualistico. Ma, quest'aspetto che rinvia all'idea mistica dell'unione di tutti i sensi nella celebrazione spirituale della totalità [4] non è esclusivamente cristiano. La forza del cristianesimo, la sua genialità, fu di recuperare questo sfondo mistico e di portarlo al suo momento culminante. È attraverso questo sfondo mistico che il poeta arriva a superare l'opposizione esterna tra cristianesimo e politeismo. Come ha scritto Savidis [5], la poesia di Kavafis non prova soltanto a superare l'antinomia tra cristianesimo e politeismo. La sua parola poetica si esprime attraverso altre tre antinomie: tra la natura e l'arte, l'amore e la morte, il passato, il presente ed il futuro. Il magico, il soprannaturale, lo spettrale, l'orribile costituiscono i ponti che riuniscono gli opposti in una scrittura simbolica e sensualista [6], di cui "prospettiva cristiana" è il filo conduttore di una nuova mistica poetica. Questo misticismo risale a tempi molto antichi, all'origine o alla nascita degli dèi nel Mediterraneo.

    Panagis Lekatsas (1911-1970), grande antropologo e filologo greco, studiò l'origine antropologica delle figure e dei simboli religiosi dell'alta antichità. Secondo lui, il sincretismo religioso, che è l'universo della Grecia moderna, si stabilisce su questo sfondo mistico di figure e di simboli religiosi dove si mescolano divinità persiane, siriane, egiziane, ebree, greche. Questo sfondo mistico dà anche vita ad un discorso morale visibile nei miti orfici e nelle dottrine pitagoriche, ma anche nelle istituzioni romane e cristiane. Questo sfondo e questo discorso sono particolarmente visibili nell'opera di Ritsos. Nei suoi due piccoli trattati [7], Il bambino divino e Le passioni divine, Lekatsas delucida le origini del percorso di Cristo sulla terra, la sua nascita, la sua passione, la sua morte e la sua resurrezione.

    Secondo l'indagine di Lekatsas, la figura del Cristo risale alle rappresentazioni mitiche della luna maschile. Questa figura si trova nell'intersezione delle due rotazioni della luna, la rotazione su se stessa e quella mensile. Il nome mèn (mese), che corrisponde a questa rappresentazione, si trasforma in mènè (luna), che rinvia alla mestruazione femminile, e che finisce per generare il figlio e amante Mèn. Tipi di divinità corrispondenti a questa descrizione: il dio sumero Nanna, il babilonese Sinn, il frigio Mèn, il mesopotamico Tammuz.

    Alla stessa famiglia appartengono Osiride, Apollo, Dioniso ed Eros. Infatti, una delle rappresentazioni di Dioniso che riconosce la mitologia è detta "figlio della Luna". I rituali notturni, spesso accompagnati da orge, erano segno della vita e della rigenerazione eterna della natura. Era come se si portasse la luce in mezzo all'oscurità più totale. Il carattere mortale di queste divinità, ma anche il loro carattere specifico, in quanto divinità della conoscenza, che "portano la conoscenza mistica degli astri", sono le caratteristiche elementari del numero di religioni nel bacino del Mediterraneo. Lekatsas riassume le sequenze del mito del bambino divino, riprese in molti miti greci, minoici, siriani o egiziani.

    Inizialmente, il bambino nasce in una caverna, perseguitato dai suoi nemici che vogliono annientarlo. Così va per lo stesso Zeus che nacque nella caverna cretese di Idaion, per sfuggire alla rabbia di Kronos, protetto da fedeli compagni. Ciò che distingue questi bambini è che sono sapienti fin dalla loro infanzia: Dioniso, Apollo e Zeus sono bambini prodigio. Sorgono in mezzo alla luce che generano. Il loro destino è in ciò eccezionale. Dovranno distruggere il vecchio mondo che deperisce ed instaurare un tempo nuovo di prosperità e di vita. In mezzo all'inverno, nasce allora ciò le cui radici permetteranno la crescita dell'albero della vita, ciò che renderà la primavera possibile. Infatti Osiride o Attis sono rappresentati dagli alberi. Uno dei nomi di Dioniso, conosciuto a Naxos, è del resto Dendreus, pianta o albero.

    L'albero è il segno dell'iniziazione alla vita ed ai riti di passaggio che esprimono la successione della vita e della morte. Il bambino deve morire perché l'uomo possa rinascere, allo stesso modo il frutto deve perire per permettere all'albero di esistere. Questo modello si trova del resto all'origine della periodizzazione ebrea del tempo del mondo ma anche nel modello hegeliano della "dialettica" [8]. Così la morte e la resurrezione, in primavera, nell'immagine dei lamenti di Iside per Osiride, non sono la perdita definitiva di un essere caro ma piuttosto le lacrime silenziose di una madre il cui figlio diventa adulto e l'abbandona. Questo bambino sapiente e divino, portatore di luce nel mondo, è destinato a diventare re e a salvare l'umanità. Ecco dunque a cosa si riferisce Anghellos Sikélianos quando, nella sua poesia intitolata Dioniso nella culla, scrive: "Mio dolce bambino, mio Dioniso e mio Cristo".

    Ecco dunque come il poeta Alessandrino arriva a mostrare nelle sue poesie la riconciliazione sociale tra politeismo e monoteismo. È in fondo "l'unione mistica di tutti i sensi" che si trova alla base del processo sociale di riconciliazione. Se si riprende la vecchia argomentazione platonica, per collegare i cinque sensi ci occorre qualche cosa in più. Poiché non si ascolta con i propri occhi e non si sente con le proprie mani, qual'è l'organo che permette di dire che un profumo, un suono o una luce sono "forti" o "acuti"? Quest'organo, ci dice Platone, è l'anima. È dunque tramite questo "complemento di senso", che chiamiamo "anima" o "psiche", che la comunicazione tra esseri umani è possibile. Ed è perché quest'organo è sempre aperto verso l'altro, l'uomo, la natura, l'universo, in altre parole, perché è la forma umana del principio della relazione, che può "comprendere", "comprendersi" nel senso di "appartenere" ed infine "perdonare", cioè superare le scissioni sociali per ricostituire una comunità unita ed indivisibile, un tipo di fantasma primordiale che ritorna con forza attraverso tutte le grandi religioni universali. Poiché l'anima, così definita, produce senso e forma i significati di riferimento comuni di una comunità storica. È precisamente ciò che il sociologo Michel Maffesoli definisce "senso comune":

    "Il senso comune [...] mette in gioco, in modo globale, i cinque sensi, senza gerarchizzarli, e senza sottoporli alla preminenza dello spirito. È la "koiné aisthesis" della filosofia greca, che, da una parte poneva la base dell'equilibrio di ciascuno nell'unione del corpo e dello spirito, e dall'altra faceva dipendere la conoscenza della comunità nel suo insieme. Sapere organico, o sapere corporale in ciò che il corpo era parte pregnante dell'atto di conoscere, e che ciò era anche causa ed effetto della costituzione del corpo sociale nel suo insieme." (Maffesoli, 1996, p.217)

    Ogni forma sociale è dunque impregnata di questo sentimento mistico e religioso, di cui la "religione" è soltanto l'espressione positiva. Si tratta effettivamente del "perdono" di cui ci parla Georg Simmel:

    "Se si vuole andare fino in fondo nell'esplorazione di questo sentimento, c'è nel perdono qualcosa che non si può veramente comprendere razionalmente, ciò che caratterizza anche in una certa misura la riconciliazione, ed è per questa ragione che questi due processi sociologici si trovano in modo significativo nella mistica religiosa; se ciò avviene, è perché, pur essendo fenomeni sociologici, contengono già un elemento mistico e religioso." (Simmel, 1995, p.343)

    Religiosità, politica e forme sociali

    Il compito di Kavafis, il suo sforzo poetico non si ferma alla chiarificazione della forma di "religiosità". Gli importa anche dimostrare come questa forma è attiva nelle riunioni pubbliche di natura politica. Gli importa dunque mostrare il legame concreto della forma religiosa con la forma politica attraverso l' "unione mistica di tutti i sensi". È attraverso rituali pubblici di natura politica che la religiosità è attiva in seno al fenomeno politico. Questo è evidente in una poesia del 1912 di Constantinos Kavafis, i Re Alessandrini:

    "Le genti di Alessandra si sono riunite per vedere i bambini di Cleopatra, Cesarione ed i suoi piccoli fratelli, Alessandro e Tolomeo, che per la prima volta si conducevano al Ginnasio per essere proclamati re in presenza del superbo schieramento dei soldati.
    Alessandro è stato nominato re d'Armenia, di Media e dei Parti, e Tolomeo re di Cicile, di Siria e di Fenicia. Cesarione si teneva un po' davanti, vestito di seta rosa. Sul suo petto, un mazzo di giacinti; la sua cintura, una doppia fila di zaffiri e di ametiste; le sue scarpe, allacciate da nastri bianchi, ricamate di perle rosate. È stato rivestito di una dignità superiore a quella dei due piccoli, poiché lo si è proclamato Re dei Re.
    Certo, le genti di Alessandria sentivano bene che tutto ciò non erano che parole, ed effetti di teatro.
    Ma la giornata era calda e bella; il cielo di un bel chiaro; il Ginnasio di Alessandria un successo trionfale dell'arte. Estremo era il lusso dei cortigiani, e Cesarione pieno di grazia e di bellezza - figlio di Cleopatra, sangue dei Lagidi. Dunque, le genti di Alessandria correvano alla festa, si entusiasmavano, e urlavano acclamazioni in greco, in lingua egiziana, ed qualche volta in ebraico, incantate da quel bello spettacolo, sebbene sapessero molto bene ciò che significava tutto ciò, e quale vacuità erano queste sovranità."

    C'è in questa poesia un tipo d'ebrezza collettiva delle genti di Alessandria dinanzi alla bellezza dello spettacolo rappresentato. Questa bellezza è generata mediante riti vuoti che mobilitano i sensi ed agitano la sensualità. È attraverso l'esacerbazione dei sensi che la collettività si forma oltre il limite dell'associazione politica razionale. La ragione "sapeva" ma questa conoscenza era immobile, statica, incapace di interrompere l'entusiasmo collettivo suscitato dalla bellezza del momento. In un certo modo, il momento politico, cioè la detenzione del potere, era già là poiché il popolo era unito intorno al suo Re, il bel Cesarione.

    Il vero potere, cioè quello di decidere della sorte del proprio popolo, le cui forme politiche ne sono l'espressione, non si trova certamente presso Cleopatra e i suoi figli, e gli Alessandrini lo sanno. Ma, essi fanno come se fosse il caso. Una volta scomparso il contenuto, la materia, cioè il potere, queste forme conducono ad un'esistenza autonoma ed hanno un effetto specifico. Questo effetto festivo che riunisce gli Alessandrini tra loro e che crea un vero legame sociale è il punto dove la forma politica partecipa alla forma della religiosità. Sebbene le forme del religioso e del politico comunichino con la forma della religiosità, la forma del politico non è riducibile al religioso: ne testimoniano le acclamazioni in greco ed in ebraico, lingue peraltro di religioni diverse ed anche opposte. La distanza tra le religioni, ci dice Kavafis, da buon teorico liberale, può essere rilevata dalla politica, ma da una politica che fa appello ad una forma più antica d'essa stessa e della religione, di una politica che fa appello alla religiosità. Questa politica è fatta di rituali che mettono in scena il potere e la volontà della dominazione. Senza il riferimento al potere questa forma non è soltanto sprovvista di significato ma anche di senso. Fare come se si sia sovrano non significa che lo si sia effettivamente. Il referente, il vero potere non c'è, la forma è vuota. Pertanto, fare come se si sia sovrano, significa che ci si può mettere al posto di qualcuno che ha il potere. È precisamente questa trasposizione immaginaria che è il senso della forma politica. Tuttavia, questa trasposizione presuppone il potere come riferimento non effettivo ma possibile.

    Questa poesia è anche una denuncia. Il poeta percorre la sua epoca con occhio vigile. Partecipa alle feste organizzate dal regime in piazza. Vede la frode che cerca di far passare questo regime per un regime autonomo. Stratis Tsirkas, studiando il politico Kavafis, scriveva: pax romana id est pax britannica. Può darsi che gli organizzatori queste di mascherate considerassero che le loro feste fossero coronate da grande successo e che i tempi della sovranità britannica non fossero in pericolo. Ma il poeta sa che l'unità del popolo sancita dalle feste del Sovrano non va sempre a vantaggio del Sovrano stesso. Il poeta dunque vigilia e previene: "Essi partecipano, certamente; colgono l'occasione, certamente; ma non sono vittime dell'inganno". "Ciò che fate, avrebbe continuato Kavafis se avesse potuto parlare liberamente, rafforza la loro unità senza ingannarli sulla vera situazione politica del loro paese". Avrebbe probabilmente finito questa piccola conversazione prevenendo gli inglesi: "Infelici, correrete verso la vostra perdita. Rafforzate la loro unità pur accentuando l'assenza di vera sovranità del popolo Egiziano"; e sussurrando al popolo: "Approfittate della bella giornata. Il bel giorno non tarderà. Odo già i rumori che si rincorrono, come se dei barbari si avvicinassero alla città".

    Forme sociali, politica e perpetuazione delle strutture

    L'epoca di Kavafis, come il tempo del declino di Roma e di Bisanzio, è un tempo dei grandi cambiamenti. L'Impero britannico volge al termine. Presto i Barbari invaderanno l'agorà. I Fratelli musulmani ed i nazionalisti arabi sotto Nasser prenderanno qualche decennio più tardi il potere: non faranno che applicare le stesse forme politiche occidentali. Tsirkas, secondo la lettura di Séféris, che ringrazia del resto per avergli insegnato a leggere Kavafis, non fa che rilevare gli eventi reali che hanno funto da dispositivo al genio poetico e storico di Kavafis. Gli sfugge tuttavia l'analisi politica concreta, fondata sulla separazione tra la vita e le forme ed i raffronti storici delle forme politiche affatto pertinenti, che fanno ricomparire lo sfondo di religiosità dietro ogni forma politica.

    Kavafis fu un osservatore pertinente della sua epoca. Questa qualità lo ha condotto ad operare e mostrare a chi vuol ben vedere come la storia stessa proceda alla separazione tra la vita e le forme. È precisamente questa separazione manifesta, così ben descritta nei Re Alessandrini, che mostra a Kavafis che la pax brittanica non durerà. Cosa dunque avverrà? Dove va il nostro mondo? Quando il contenuto formale di una comunità storica, cioè la legislazione, le istituzioni politiche, i rituali della messa in scena del potere, sono sproporzionati rispetto alla forza vitale del popolo storico, allora questa stessa forma invita ad essere invasa da un'altra forza vitale che è sproporzionatamente sviluppata rispetto ai suoi contenuti formali. Le strutture sociali e politiche chiedono la forza così come la forza esige strutture per perpetuarsi. Quella forza vitale informe, alla quale fanno appello le poesie di Kavafis, sono i barbari.

    In attesa dei Barbari

    "Cosa attendiamo, riuniti nell'agorà?
    Si dice che i Barbari saranno là oggi.

    Perché questa letargia, al Senato?
    Perché i senatori restano senza legiferare?

    Perché i Barbari saranno là oggi.
    A che pro fare leggi ora?
    Sono i Barbari che presto le faranno.

    Perché il nostro imperatore si è alzato così presto?
    Perché sta dinanzi alla più grande porta della città,
    solenne, seduto sul suo trono, coperto il capo dalla sua corona?

    Perché i Barbari saranno là oggi
    e il nostro imperatore attende di accogliere
    il loro capo. Egli ha anche preparato una
    pergamena da consegnargli, dove sono conferiti
    numerosi titoli e numerose dignità.

    Perché i nostri due consoli ed i nostri pretori sono
    usciti oggi, vestiti con le loro toghe rosse e ricamate?
    Perché questi braccialetti intrecciati di ametiste,
    questi anelli dove scintillano smeraldi levigati?
    Perché oggi queste canne preziose
    finemente incise d'oro e d'argento?

    Perché i Barbari saranno là oggi
    e simili cose abbagliano i Barbari.

    Perché i nostri abili retori non vengono come sempre
    a pronunciare i loro discorsi e a dire le loro parole?

    Perché i Barbari saranno là oggi
    e l'eloquenza e le arringhe li annoiano.

    Perché questo disordine, questa improvvisa
    inquietudine? - Come sono gravi i visi!
    Perché piazze e vie così rapidamente deserte?
    Perché ciascuno riparte da casa con il viso preoccupato?
    Perché la notte è caduta e i Barbari non sono venuti
    ed alcuni che arrivano dalle frontiere
    dicono che non ci sono più Barbari.

    Ma allora, cosa diventeremo senza Barbari?
    Queste genti erano insomma una soluzione." [9]

    Questa poesia, probabilmente scritta [10] nel dicembre 1898, fu pubblicata dal poeta soltanto nel 1904. Cos'è accaduto nel 1898 che ha potuto influenzare il pensiero poetico di Kavafis e suggerirgli questo: "Queste genti erano insomma una soluzione"? Tsirkas, critico perspicace e ricercatore instancabile, cita il giornale francofono Phare d'Alexandrie di domenica 4 e lunedì 5 settembre 1898. L'articolo citato riferisce gli eventi della battaglia di Omdourman che ha avuto luogo il 2 settembre 1898, il trionfo degli inglesi e la sconfitta definitiva del Califfato di Mahdi in Sudan:

    "L'altro ieri, venerdì, 2 settembre 1898, oltre dieci anni dopo il massacro di Gordon a Khartoum, l'esercito del Serdâr Kitchener Pacha, ha respinto le truppe del Califfo Abdulhah e ha riportato questa vittoria così attesa della civilizzazione contro la barbarie." [11]

    Ecco dunque l'evento fotografato: la vittoria delle truppe anglo-egiziane contro il Califfo del Sudan, Abdulhah. Questa vittoria sigillò temporaneamente, e soltanto temporaneamente, il futuro dell'Egitto; era una provincia dell'impero vittoriano. Comprendiamo ora perché la poesia di Kavafis non poteva essere pubblicata nel 1898, i "barbari" che "erano insomma una soluzione" erano troppo vicini ai contemporanei del poeta ed alle autorità britanniche. A partire da quest'evento, comincia il vero lavoro del poeta e dello scienziato. "Sono un poeta storico" [12], diceva Kavafis verso la fine della sua vita. Si tratta di comprendere il senso degli eventi analizzando le forme politiche. Kavafis, osservatore eccellente, constata questo singolare "nervosismo" della popolazione egiziana di fronte all'impero britannico. Senza realmente volere la "barbarie", gli Egiziani di quell'epoca lasciano apparire la loro insoddisfazione fondiaria di fronte alla loro situazione politica di allora. La folla sente, ed il poeta sente che la folla sente e ciò che la folla sente: la fine imminente dell'Impero, come la folla romana sentì certamente la fine dell'Impero romano. Séféris [13] dirà che in questa poesia ha luogo la caduta di un Impero, quello di Roma, ma che il tono della poesia è bizantino: è la caduta dell'Impero bizantino visto dal Phanar. Si tratta, dirà Séféris, di un rumore, di un pericolo indefinito che angustia i cittadini pacifici, civilizzati. Questa vita pacifica della capitale dell'Impero è il segno precursore della sua fine: precisamente, il fatto che la vita aveva abbandonato le forme politiche. Non è più lo ius publicum romanum dei giureconsulti romani che regna padrone assoluto a Roma, ma questa stessa legge interpretata dal popolo di Roma nello spirito della legge della Chiesa cristiana. Il popolo di Roma sente che la forza non è più nel Senato o in Cesare. Quando i Goti entreranno trionfanti a Roma, non la metteranno a fuoco ed a sangue: sono già convertiti al cristianesimo ed il loro capo si prostrerà davanti al vescovo di Roma. Le antiche forme durano ma la forza vitale non è più la stessa. La forza amorfa di questi "barbari" sarà messa in forma dalle forme di uno spirito di positivismo giuridico romano e di umanesimo cristiano.

    È precisamente ciò che arrivò a Phanar. Dal 1204, l'Impero bizantino va declinando. Tutto il popolo di Costantinopoli sente la sua fine imminente. Gli eventi che ritardano la presa di Costantinopoli non fanno che accentuare l'impazienza: che si finisca! Una volta i Turchi a Costantinopoli ed il sultano a Phanar, le antiche forme bizantine ritroveranno un nuovo vigore, una nuova vita. L'organizzazione dell'Impero ottomano è una ripresa dell'organizzazione bizantina: è testimoniato dal fatto che gli stessi fanarioti che servivano l'Imperatore servono ora il Sultano. Altrove, nella Synopsis [14] di Kigalas, pubblicata a Venezia nel 1637, la numerazione dei re di Costantinopoli comprende anche i Sultani, come continuatori naturali di Bisanzio, con la cui tesi concordavano molti fanarioti anche all'inizio del diciannovesimo secolo.

    La scienza del poeta

    La separazione epistemologica tra la vita e le forme non è dunque un metodo arbitrario, fondato dall'idea di un Platone o di un Simmel. "C'è società, in senso lato della parola, scrive Simmel, ovunque c'è azione reciproca degli individui. [...] Le cause particolari e i fini [...] sono come il corpo, la materia (Stoff) del processo sociale; il risultato di queste cause, la ricerca dei suoi fini comporta necessariamente un'azione reciproca, un'associazione tra gli individui, ecco la forma che riveste il contenuto. Separare questa forma da questi contenuti, dice Simmel, tramite l'astrazione scientifica, tale è la condizione sulla quale si basa tutta l'esistenza di una scienza speciale della società" (Simmel, 1991, p.165). Ma l'astrazione, di cui la divisione è una forma, non si produce casualmente. Ha norme e queste norme sono inerenti alla materia che si vuole dividere. Ancora una volta, in ogni scienza induttiva, è la vita che ha l'ultima parola: per ben dividere occorre seguire la natura dell'oggetto da dividere. Ciò equivale a dire che qualsiasi forma non può corrispondere a qualsiasi contenuto e di conseguenza non può essere liberata da qualsiasi vita. Le forme sono legate ad una prima vita storica, cosa che dà loro consistenza. La caratteristica di un dialettico come Kavafis è di distinguere le forme reali nella loro realtà storica. Il dialettico, poeta o scienziato, crea le forme soltanto man mano e in misura che studia l'esistente. La separazione tra vita e forme è un processo storico, è la vita che si separa dalle forme per il tramite delle quali è diventata realtà sociale una volta che queste forme sono inadeguate, una volta che queste forme non arrivano ad esprimerla. Si chiama di solito questo momento storico una crisi sociale, senza che ciò significhi qualcosa di speciale o di straordinario. In realtà, si chiama "crisi" soltanto la trasformazione delle forme sociali, un fenomeno vitale per la sopravvivenza dell'umanità, una necessità storica che ha luogo irreparabilmente in ogni epoca ed in ogni momento della vita. Le forme non "muoiono", non scompaiono ma continuano una seconda vita. Diventano autonome rispetto al contenuto di vita che le accompagnava precedentemente e che attribuiva loro un significato concreto legandolo ad un riferimento concreto. Oltre ogni significato attuale, separate da ogni contenuto esistenziale reale, continuano nonostante tutto ad essere portatrici di senso, capace di ricollegarsi nuovamente ad un contenuto di vita vaga ed amorfa per elevarla al rango di un contenuto significativo. A partire dal momento in cui una forma si stacca dal suo contenuto, comincia per essa un'erranza particolare, un viaggio temporale che potremmo forse chiamare "Storia di una forma".

    È in questo senso che Kavafis è effettivamente lo "storico" che dice di essere: è storico non degli eventi ma delle forme.


    NOTE E BIBLIOGRAFIA

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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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