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    M@gm@ vol.2 n.4 Ottobre-Dicembre 2004

    LE FORME DEL FONDO [1]



    (Traduzione Paolo Coluccia)

    Michel Maffesoli

    michel.maffesoli@univ-paris5.fr
    Insegna Sociologia all'Università René Descartes, Paris5-Sorbonne; Direttore del CEAQ (Centro di Studi sull'Attuale e il Quotidiano, Paris V) e della rivista Sociétés; Presidente dei Centri europei di Ricerca sull'Immaginario (GRECO CRI), Francia.

    "Io non dischiudo né nascondo ma al contrario faccio vedere" (Eraclito, fram. 93)

    Non è vero che la natura ha paura del vuoto. Forse addirittura si completa. Il vuoto è anche una modalità dell'essere. È possibile nidificarvisi, avvolgersi pigramente e, così, proteggersi dall'angoscia del tempo che passa. Il vuoto delle apparenze è, in alcuni momenti, una delle forme d'espressione della vita sociale. Oltretutto occorre saperle riconoscere. Certamente, abbiamo tutti un'esistenza personale, ma siamo, ugualmente, i rappresentanti, a volte anche le vittime, di uno "spirito comune", forse anche di un "inconscio collettivo" che si è costituito di secolo in secolo. E, molto spesso, quando crediamo di esprimere le nostre idee, siamo soltanto dei portavoce, comparse di un vasto "theatrum mundi" dalle dimensioni infinite.

    Bombardamento di immagini multiformi, spettacolarizzazione di qualsiasi cosa: dalla politica al pensiero, passando per la religione, l'apparenza è una realtà inevitabile. Ci si può rammaricare, ma, secondo il proverbio: "contra factum non valet argumentum". Ed è vero che le semplici argomentazioni non possono nulla contro i fatti. Occorre avere il coraggio o, semplicemente, la lucidità di riconoscere ciò che è come essere il carattere supremo della realtà. È la lezione corroborante che Eraclito attribuisce al dio di Delfi, che non nasconde né rinchiude nulla, ma che al contrario fa vedere. Non è la prima volta che l'immagine occupa tutto lo spazio pubblico. Numerose sono le civiltà o i momenti storici fondati su quella. Ma nella nostra tradizione culturale, abbiamo difficoltà a prenderla seriamente. E resta molto spesso frivola, aneddotica, superficiale. È sufficiente vedere il sospetto che concerne la tematica dell'immaginario per rendersene conto. E tuttavia è a questo mondo immaginario che è opportuno pensare.

    Così, di fronte alle illusioni, alle pretese del razionalismo che, sotto copertura scientifica, pretendono di guidare la società, di orientarla verso ciò che sarebbe il suo scopo ed il suo bene, rendere attenzione all'immaginario, alle immagini, al gioco delle apparenze richiede un passaggio allusivo. Allusione che, oltre alla brutalità del concetto, in modo morbido, lascia essere le parole e le cose. Svela le situazioni, i fenomeni, i modi di essere ed i discorsi che si tengono su di essi. Ritornare alla semplicità fenomenologica può, così, essere una forma originale di pensare che sia in accordo con ciò che è vissuto. Certamente, il fenomeno è evanescente, ma c'è una forma di piacere nel tragico, che ciò non manca d'indurre. Ci può essere una forma di contatto (reliance) a partire da ciò che si dà a vedere. Forse, oltretutto, all'opposto della morale, astratta e generale, è questa la vera etica: l'efflorescenza delle cose, le immagini comuni che si condividono con altri. Heidegger ha detto e ripetuto: "Ethos bedeutet Aufenthalt", l'ethos rinvia allo stare.

    Proprio questo è in gioco: un mondo immaginario come luogo d'abitazione, dimora, alloggio. Il fenomeno come riparo, come rifugio dove confluiscono le notizie e i sempre vecchi modi di riferirsi al mondo, agli altri ed alla divinità. Spettacolarità e teatralità come strutture essenziali di ogni vita sociale [2]. Si trova che il vuoto (il crogiolo) degli aspetti, il gioco dei fenomeni sono cose assai sospette nella tradizione culturale occidentale, obnubilate come sono dal suo sostanzialismo strutturale. Ciò è stato detto soltanto brevemente, è importante ritornare su questo. Così Georges Steiner analizza bene la distinzione stabilita da Heidegger tra l'Essere infinito e l'essere nominale. Quello è inglobante, direi che è indefinito. Mentre quest'ultimo si particolareggia: si è dio, un individuo specifico ecc. ... è ciò che funge da fondamento ad un "ego" distinto e stabile nella sua identità.

    È soprattutto questo sostanzialismo che è causa ed effetto del monoteismo. Dio Uno che funge, metaforicamente, da legittimazione all'Universalismo della filosofia dei Lumi o alla solidità dell'Istituzione sociale. Si può, a tale riguardo, fare riferimento a ciò che potrebbe essere la giustificazione simbolica della struttura istituzionale: "tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam". Ciò che fa, precisamente, dire a J. de Maistre: "Occorre essere, per essere qualcosa" [3]. L'essenza della doxa sociologica si poggia, in modo incoscio, su tale sostanzialismo, che si basa sul fatto che si presume che il diritto crei l'esistenza, mentre è, certamente, l'opposto quello che avviene. Ciò che M. Weber ha chiamato la "logica del dover-essere" che maschera una buona valutazione di ciò che esiste concretamente, ogni giorno, è alla base dell'accecamento stupefacente della conoscenza stabilita (istituzionalizzata) di fronte alle forme sociali emergenti, di fronte al dinamismo brulicante dell'esistenza.

    C'è un'opposizione, ovvero una contraddizione, tra il pensiero dell'essere ed il pensiero dell'esistenza. E per attirarvi l'attenzione non è, forse, inutile fare riferimento alla mistica. In particolare ad una nozione della Kabala: quella di "contrazione", di "ritiro", il "Tsimtsum". Negazione da parte di Dio di una parte di se stesso. Ed in questo vuoto che scava in lui può nidificarsi l'apparire di una realtà autonoma, quella del mondo, quella dell'uomo. Rinuncia paradigmatica. È lo spazio vuoto scavato nella sostanza divina che è il luogo dell'esistenza. Numerosi sono i filosofi moderni o contemporanei: Schelling, F. Rosenzweig, Habermas, G. Scholem, M.A. Ouaknin, i quali, ciascuno a suo modo, hanno mostrato la pertinenza di tale metafora [4]. Per riassumere, basta sottolineare che il non sostanziale, il vuoto è necessario per comprendere ciò che è, continuamente, in divenire.

    Ciò che è in potenza, avvenimento, tutto ciò che mette l'accento sull'esperienza o ciò che appare, si fonda, paradossalmente, sul vuoto. Essere che riposa, in parte, sul non essere. Ontogenesi piuttosto che ontologia. Prospettiva un po' mistica, certamente, ma che non è senza concrete conseguenze sociali. Gli eccessi di qualsiasi ordine, le numerose pratiche a rischio, tutte le effervescenze di cui l'attualità non è avara, il fascino per il fatto diverso, eterodosso, le ribellioni giovanili, sono in questo senso, come altrettante espressioni di questa sete dell'infinito da cui sgorga il corpo sociale. Desiderio di indefinito, sarebbe più esatto dire, che non si riconosce più nel "positivo" ufficiale, nella sostanza istituzionale, ma che, nel suo senso rigoroso, si accorda con l'evanescenza tragica di tutto, con l'aspetto effimero degli individui, delle parole e delle cose. Desiderio che, in una parola, riconosce ed accetta "l'insostenibile leggerezza dell'essere".

    Riducendo la "pluralità dei mondi" all'unità sostanziale, la tradizione moderna, nella sua forma religiosa, oltre che profana o politica, ha favorito il meccanismo di proiezione e di rappresentazione. Doppia faccia di una stessa realtà. Si proietta nel futuro la realizzazione di sé e del mondo. Si costruiscono teorie per legittimare o razionalizzare tutto ciò. La vera vita è supposta altrove, la storia della salvezza, quindi la Storia tout court, fungerà da sostegno teorico a tale riferimento di piacere.

    Karl Löwith ha molto insistito sui "presupposti teologici della filosofia della storia". Sono tutte le teorie dell'emancipazione e, in modo molto più triviale, tutti i moralismi che distillano, giorno dopo giorno, queste rappresentazioni, che sono come altrettante prese di distanza di fronte a questo mondo un po' malfamato, in ogni caso poco desiderabile [5]. Nella rappresentazione, il qui-vuoto è misurato con il metro della cosa in sé che, sola, ha consistenza e stabilità. Per riprendere le categorie filosofiche: noumeni e fenomeni, si conosce l'ordine delle priorità. Ed i grandi sistemi rappresentativi, che punteggiarono l'elaborazione del pensiero moderno (Sant'Agostino, San Tomaso d'Aquino, K. Marx), si preoccupano di mettere ordine nella disparità anarchica del vissuto. La scolastica ha paura della vita. Si pone la missione di inculcare, con tutti i mezzi, tale timore.

    C'è, infatti, qualcosa di osceno nei fenomeni e nella loro rappresentazione. In senso rigorosamente etimologico osceno è la parte che sta davanti alle scene, che è esposta allo sguardo di tutti. L'oscenità è tanta, per cui la questione è prendere seriamente i fenomeni. Senza tenere conto dei clamori e degli odi, la sfida epistemologica è soprattutto questo: lasciar sembrare in tanto come tale la realtà stessa. Vedere, far vedere. Descrivere, metaforizzare la pluralità delle forme. Non è, inevitabilmente, rassicurante, poiché l'ombra ha la sua parte. Ma se ne può trovare vantaggio, se si vuole sviluppare un pensiero che accompagni ciò che è, un pensiero che permetta, in qualche modo, di osservare la dinamica interna di queste "cose" sociali che emergono con forza, con insolenza, anche con ingenuità.

    È questa la sfida della fenomenologia: accordare il fatto di dire e quello di vedere. Prendere seriamente i fenomeni in quanto tali. Senza rapportarli ad una causalità estrinseca, che sia quella di ordine economico, culturale, religioso o politico. Senza essere particolarmente ironico, c'è nella presentazione un po' contemplativa del mondo il tipo di sensibilità sviluppato da Descartes quando, secondo il suo biografo, prese la "risoluzione non di incontrarsi da nessuna parte come attore, ma di trovarsi ovunque come spettatore dei ruoli che si giocano in qualsiasi tipo di Stato sul grande teatro di questo mondo" [6]. Il messaggio è istruttivo da parte di un importante pensatore della modernità. Dovrebbe indurci ad assumere lo stesso atteggiamento se vogliamo comprendere ciò che si tesse nella postmodernità nascente. Per fare un inventario dei luoghi, non si può non tenere conto di ciò che emerge. Anche se per ciò occorre sacrificare le opinioni erudite dominanti.

    È così che si potrà essere d'accordo con la poesia popolare, con quest'arte di tutti i giorni con la quale si esprime l'uomo comune. Quest'ultimo del resto esiste, non si può più estraniare alle rappresentazioni ufficiali ed essere diffidente di fronte a quelli che ne sono i detentori ufficiali. L'intellettuale come grande coscienza morale non è più riconosciuto come tale. Si è tanto contraddetto, anche se con continue rassicurazioni, che si è totalmente screditato. Lo statuto del giornalista sta subendo la stessa sorte. "Senza obiettività, né soggettività" diceva di lui G. Lukacs. Ciò che è certo è che, essendo troppo marionetta, non può più pretendere d'indicare l'orientamento che prende una società. E che dire del politico! Nei suoi confronti il disprezzo si afferma sempre più. Indipendentemente dal suo colore, appare compromesso in una rete di corruzioni che lo invalidano, ormai, nella gestione della cosa pubblica. Molto spesso questo sospetto è obiettivamente non fondato. Ma questo non è il problema. È evidente il fossato che si è aperto tra il popolo e coloro che sono designati a rappresentarlo.

    Si potrebbero, per gioco, moltiplicare gli esempi in questo senso. Basta segnalare che sottolineano la saturazione di queste "grandi teorie" di riferimento elaborate nel XIX secolo. La disaffezione, in particolare, per ciò che riguarda le giovani generazioni, di fronte alle istituzioni politiche, sociali, simboliche merita attenzione. È lo stesso per ciò che riguarda la perdita d'autorità delle élites. Tutto ciò è sintomatico della crisi della rappresentazione: momento in cui un corpo sociale non ha più coscienza di ciò che è e, di conseguenza, non ha più fiducia in ciò che è. Ecco pertanto, ugualmente, ciò che fa scaturire l'importanza crescente che assumono i fenomeni. La teatralità quotidiana può essere considerata infatti come una valorizzazione del presente. Importanza del qui ed ora. Tematica multiforme del carpe diem. Tutte cose che ridanno forza e vigore all'esperienza nella sua dimensione creatrice.

    Ricordiamo ancora una di queste banalità di fondo, che si dimentica troppo spesso. Il tempo si esprime attraverso tre modalità specifiche: passato, presente, futuro. E secondo le epoche è questa o quella modalità che sarà privilegiata. Così, se si riprende l'espressione di Schelling: "Le età del mondo", l'eone moderno, cioè l'epoca che caratterizza la cultura occidentale, la sensibilità con la quale questa si esprime, mette principalmente l'accento sul futuro, la Storia. Il processo di rappresentazione: grandi sistemi filosofici, progetto politico non sono altro che la traduzione di una tale considerazione del tempo. Dunque saturazione di una tale proiezione e reinvestimento del presente. Da qui la visione esistenziale che ciò non manca di provocare. L'esperienza, la poetica, la creazione come altro modo di esprimere una nuova presenza nel mondo. È ciò la (ri)emergenza di un "eone" postmoderno, che privilegia l'apparenza, l'immagine, la poesia. Ciò richiede l'elaborazione di una presentazione teorica.

    Presentazione che permetta di comprendere l'importanza del presente nella nuova presenza nel mondo. Tale potrebbe essere, per riassumere, la sfida epistemologica con la quale l'intellettuale deve confrontarsi. Sensibilità teorica che si accorda con l'estetizzazione sempre più affermata della vita sociale.

    A proposito della fotografia, Gilbert Durand nota che il "fatto di vedere e di dare a vedere è sulla via di una poetica" [7]. Si può estrapolare un principio. Dare a vedere riguarda tutta la creazione del quotidiano. Questo non è una sotto-cultura misurabile con il metro del buon gusto borghese, ma possiede una qualità intrinseca. La fotografia, come arte di massa, i club di pittura, i laboratori di scrittura, tutte le forme del kitsch, dal pozzo preparato con pneumatici ai nani di un giardino, tutto ciò testimonia una ricerca della felicità a partire dalla forma.

    È lo stesso della progettazione, dell'architettura, del fai da te, senza dimenticare il "body building", il tatuaggio ed altre cure del corpo. L'attenzione portata alle vetrine commerciali e il "packaging" industriale non sono altro che l'arte di mostrare. E fin'anche lo stesso pensiero o la stessa religione si mettono in scena. In tutti questi casi il simulacro non è, come si tende troppo presto a dire, la forma ultima o "integrata" dell'alienazione. Riprende valore l'antica funzione del totem intorno al quale la comunità si aggrega. È ciò che fanno le tribù postmoderne, intorno alle molteplici icone che punteggiano la vita di tutti i giorni. Per liberarsi dell'atteggiamento giudicante, tipico del pensiero moderno, non è soltanto una semplice "posa", bensì un modo di essere più in sintonia con il gioco delle apparenze sociali. Ciò vale anche per la critica che è, in senso stretto, una scelta, l'espressione di un'opinione. Oltre o al di qua dell'opinione, un pensiero radicale deve occuparsi di descrivere ciò che è. Ciò può sembrare paradossale. Ma c'è nella descrizione una reale opportunità di afferrare la forza della forma.

    Per comprendere tale radicalità, ho proposto, nel quadro di una conoscenza ordinaria, il neologismo di "formismo". E ciò per fare emergere che la forma è formante. Che non c'è fondo se non in riferimento ad un'esteriorità. Che il non-essere della superficie può essere l'indice di un più-essere esistenziale. Nei confronti dell'Occidente, è soprattutto ciò su cui insistevano i diversi pensieri orientali. È soprattutto ciò che l'importanza dell'involucro, in Giappone ad esempio, sottolinea a suo modo. È soprattutto, infine, ciò che la rinascita dei rituali, nelle nostre società, rimette al gusto corrente. Per illustrare questa radicalità della superficie, si può ricordare la formula di Wittgenstein: "Quando ci rappresentiamo qualcosa, non osserviamo". E, di rimando, questo detto di Paul Valéry: "Ciò che penso ostruisce ciò che vedo, e viceversa. Questa relazione è osservabile" [8]. Si potrebbe proseguire con una simile antologia di spiriti acuti e non conformisti, che hanno saputo mostrare l'importanza della modestia dello sguardo in opposizione alla paranoia del cognitivo.

    Necessità di ritornare alla cosa. Qualunque essa sia: oggetto familiare con il quale si vive in "corrispondenza" magica, affezioni passive dei molteplici fanatismi o emotività di tutte le effervescenze sociali, situazioni, eventi della vita di tutti i giorni. Ecco dunque ciò che qui compone il theatrum mundi nel quale svolgiamo il nostro ruolo, ecco pertanto questo gioco senza fine dei fenomeni, di cui non si può negare la realtà. Certamente, la proprietà del fenomeno è che non è sostanziale. Ma è la sua evanescenza stessa che fa che lo si viva con più intensità, cosa che gli dà, di fatto, una specie di "sur-realtà". Il fenomeno spinge alla modestia, per la sua complessità, o anche per la sua indecisione. È nebuloso e plurale, e non potrebbe essere "ridotto" all'unità del concetto. Quest'ultimo, l'ho già mostrato, ha un aspetto paranoico. In un modo che è sospeso su (para noien) semplifica tutto. P. Valéry parlava della "brutalità del concetto". Ed è, empiricamente, interessante notare che tutti si adoperano per fare concetto.

    Il pubblicitario fa concetto, la stessa cosa fa lo stilista e il giornalista. I tecnocrati concettualizzano, i politici anche. L'azione del lavoratore sociale si vuole disciplinata da un concetto direttivo. Chi, esprimendo la più piccola parvenza d'idea, non ha la pretesa di trovare il concetto esplicativo? Anche il metallurgico di Stoccarda si pone: "Mercedes, ein Begriff"! Qualsiasi "flatus vocis" prende importanza nella panoplia dell'immediato pensare in modo concettuale. Per essere stato troppo utilizzato, usato, il processo semplicemente conoscitivo finisce nel ridicolo. Lasciamo tutti questi concettuali ai loro giochi puerili! Poiché tutt'altro è il procedimento accarezzante dell'osservazione. Quella che privilegia l'esperienza esistenziale del presente. Nelle epoche in cui questa modalità temporale prevale, occorre sapere utilizzare un'altra qualità intellettuale di lunga memoria: la prudenza, questa "sophronis" di cui l'antica saggezza sottolineava l'importanza.

    Si può, infatti, raccontare, teorizzare il passato. È abituale prevedere o profetizzare il futuro. Nei due casi si manipola, a proprio piacimento, ciò che è stato o ciò che sarà. La proiezione vi svolge un ruolo importante. Il presente ci richiama a maggior modestia. Come osservava Schelling: "Il presente è constatato... il constatato è esposto" [9]. Superba scorciatoia che induce alla modestia. Formidabile inversione di prospettiva. Non più la pretenziosa, e dogmatica, "adequatio rei ad intellectus", l'adeguamento delle cose ai presupposti intellettuali, base di tutto l'intellettualismo occidentale, base della brutalità progressista e del saccheggio della natura che ciò ha provocato, ma "adequatio intellectus ad rem", adattare il pensiero alla cosa stessa.

    Inversione di polarità che permetta di scoprire che la verità può nidificarsi nelle cose: oggetti, situazioni, fenomeni, esperienze, eventi ecc. ... In questa prospettiva la forma delle apparenze informa il pensiero. Non c'è più una manipolazione del mondo sociale e naturale, parte di una "paranoia" esterna: Dio creatore onnipotente, l'Uomo signore e proprietario della natura, lo Stato demiurgo che sovrasta, il teorico che confeziona un concetto al fine di produrre ciò che deve essere la società. Ma tutt'al contrario, un pensiero che si regola, al massimo, intorno a ciò che è. Una tale traiettoria è, certamente, più consona con l'interazione sociale. Quella delle utopie interstiziali, quella delle solidarietà di base, quella delle ribellioni multiple quotidiane che creano ciò che Hakim Bey chiama le "zone d'autonomia temporanee".

    Ciò che ho chiamato il "presentismo", modalità della temporalità di cui si può constatare il contagio nelle nostre società, in particolare nei modi di essere e pensare giovanili, ci richiama alla prudenza. Il temporaneo, il momento spinge l'osservatore sociale alla modestia se si vuole ben comprendere la ricchezza che tutto ciò provoca. Nel corso delle storie umane ci si è già confrontati con tale modestia. Così il pensiero apofatico. Non tanto l'onnipotenza del logos sovrastante, ma la descrizione per esclusione. È la mistica che, contro la teologia dogmatica o razionalista, sviluppa una tale posizione intellettuale. Di Dio non si può parlare direttamente, ma soltanto dire ciò che non è. Si affronta così, per esclusione. Là ancora l'idea del vuoto.

    Così, ad esempio, Maestro Eckhart, mistico del distacco. Per lui Dio è inconoscibile o inesprimibile nella sua essenza. Ma si può comprenderlo nelle sue manifestazioni [10]. La profondità della divinità, reperibile nella sua superficie. Da qui la necessità delle metafore, delle analogie che possono molto meglio spiegare questa dialettica fondo-forma, interno-esterno. Immagini che spiegano le immagini. Fenomenologia poetica, nell'opera di G. Bachelard, e che si trova nel suo discepolo Gilbert Durand, e che si preoccupa di elaborare un nuovo spirito scientifico, non si è più autorizzati a descrivere l'efflorescenza della vitalità e della teatralità quotidiana. Così il culto del corpo, per esempio, così come appare nelle riviste specializzate (dietetica, natura, sport, moda). O ancora lo spettacolo pubblicitario, che si può considerare come la vera mitologia dell'epoca. Ma anche le parate urbane, quelle della "passegiata" di tutti i giorni, o quelle, parossistiche, dove ci si raccoglie, rumorosamente, attorno ad icone aggregative. "Love parade", "Techno Parade", "Marce dell'orgoglio omosessuale" lo testimoniano abbastanza.

    In tutti questi casi, le figure celebrate non sono oggetti inerti. Non sono neppure oggetti che permettono la coscienza di sé. Ma molti fenomeni che hanno un'"irradiazione" (phainesthai) propria. Per riprendere un'analisi di Heidegger, non si tratta più degli oggetti di una rappresentazione, ma di una "apparizione" che favorisce la rappresentazione dell'altro [11]. Una fenomenologia poetica permette di fare emergere la creazione di tutti i giorni. Ciò che ho chiamato "un'etica dell'estetica". Oltre il pessimismo proprio dell'intelligenza moderno, l'irradiazione dei fenomeni è sulla via di (ri)suscitare nuovi legami sociali che non si potranno osservare partendo dall'opinione razionalista. L'immagine mette i sensi in movimento. L'emozionale diventa moneta corrente. Contamina tutto. Fino ed ivi comprese le grandi adunanze politiche e rivendicative. Occorre saper prestare attenzione al fatto che i gruppi sociali sono costituiti dello stesso tessuto dei sogni che li animano. È ciò che vuol fare emergere una "sociologia figurativa" (P. Tacussel).

    Per quanto sia scioccante, e lo è molto spesso, c'è da tempo vitalità nell'aria. Non serve a nulla barricarsi contro di essa. Ma, al contrario, accompagnarla, con generosità di spirito. L'immaginario sociale ha un'autonomia specifica. È in movimento, sfuggente, polimorfo, ma non meno efficace. E solo un politeismo epistemologico può permettere di comprendere l'arrivo delle figure intorno alle quali si struttura il legame sociale.


    NOTES

    1] Questa tematica sarà sviluppata nel mio prossimo libro Il ritmo della vita, variazione sull'immaginario postmoderno da pubblicare nelle edizioni La Table Ronde, Parigi.
    2] Sulla relazione teatralità-spettacolarità, la tesi di A. Biao CeaQ, ed anche il mio libro, M. Maffesoli, La Conquête du présente (1979), DDB, 2000.
    3] J. de Maistre, Du Pape, Parigi, 1861, p.28 Cf. G. Steiner, M. Heidegger, ed. Flammarion, 1987.
    4] Cf. S. Mosès, Système e Révélation: La philosophie de F. Rosenzweig, Bayard, 2003, p.38-39, J. Habermas, Theorie und Praxis, Berlino, 1967, p.108-161, M.A. Ouaknin, Tsimtsoum, Albin Michel, 1992, p.32, G. Scholem, Le Messianisme juif, Parigi, 1974, p. 92.
    5] Cf. K. Löwith, Histoire et salut, Gallimard, 2002. Sulle teorie dell'emancipazione, rinvio al mio libro precedente, M. Maffesoli, La Part du Diable, (2002), Champ-Flammarion, 2004.
    6] Baillet, La Vie de monsieur Des-Cartes, New York, G. Olms, 1872, T.1, p.41.
    7] G. Durand, Les Structures anthropologiques de l'imaginaire, Parigi, 1969, p.476. Sul kitsch, Cf. A. Talpe, Kitsch, ou l'idéologie du bonheur, Parigi, 1971, e M. Schelling, Les Âges du monde, Parigi, 1949.
    8] P. Valéry, Oeuvres complétes, Pléiade, 1974, volume 1, p.795, e L. Wittgenstein, Werkausgabe, Suhrkamp, Frankfurt, 1984, volume 8, p.420 § 621. Sul "formismo" rinvio al capitolo del mio libro, M. Maffesoli, Connaissance ordinaire, Parigi, 1985. Cf. anche, P. Watier, G. Simmel, Circé, 2003.
    9] F.W. Schelling, Les Âges du monde, trad. S. Jankélévitch, op. cit., p.9.
    10] Cf. B. Beyer de Ryke, Maître Eckhart, Bruxelles, Ousia, 2000, p.75. Cf. aussi G. Durand, Structure, Eranôs, Paris, La Table ronde, 2003. Et aussi G. Vattimo.
    11] Cf. M. Heidegger, Acheminements vers la parole, Gallimard, 1976, p.123-124. Sulla sociologia figurativa, cf. P. Tacussel.


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