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  • Approccio dal basso e interculturalità narrativa
    Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.1 n.2 Aprile-Giugno 2003

    LA PRESENZA IMMIGRATA Un privilegiato e difficile momento di incontro etnografico


    Monica D'Argenzio

    senegal@inwind.it
    Antropologa culturale, etnologa; laureata in Sociologia con indirizzo etno-antropologico; Mediatrice culturale presso Ass. Senegalese di Napoli.

    La rilettura di un'esperienza di ricerca sul campo

    La ricerca sul campo si prospetta come una serie di incontri e traduzioni [1]. Non è un mero processo di raccolta di dati o di un sapere culturalmente altro da parte di un soggetto autonomo, è, invece, un incontro dialogico prima, ermeneutico dopo, "privo di regole e storicamente contingente il quale implica in una certa misura sia conflitto, sia collaborazione nella produzione di testi. Gli etnografi sembrano condannati a fare tutto il possibile per realizzare un incontro genuino pur riconoscendo nello stesso tempo quell'intreccio d'intenzioni politiche, etiche e personali che mina ogni trasmissione di sapere interculturale" [2]. D'altra parte, essere obiettivi non vuol dire essere esenti da pregiudizi, ma divenire consapevoli dei propri cercando, allo stesso tempo, di trascenderli. Attraversare lo spazio della diversità e comprendere ciò che è difficile, se non impossibile, da accettare è il nocciolo dello scandalo dell'incontro etnografico [3]. Con un atteggiamento definito di etnocentrismo critico [4] si gettano le basi per "lavorare dentro il contesto del culturale, in modo da poter cogliere almeno in parte il significato degli atti e degli eventi; ma dobbiamo anche agire fuori della comprensione culturale del mondo, per formarci un qualche genere di idea del modo in cui le connessioni casuali del mondo esterno vengono rifratte nella realtà culturalmente costruita" [5].

    All'origine di ogni incontro ci sono sempre un Io ed un Altro: l'Io vede, guarda, scruta l'Altro e resta colpito dalla sua peculiarità, dalle sue caratteristiche, dalle sue abitudini, così estranee all'occhio di colui che osserva. Ma anche l'Altro è un io che vede e fa esperienza dell'alterità; nel momento etnografico non c'è solo lo sguardo dell'Io (l'occidentale) sull'Altro, ma vi è anche lo sguardo dell'Altro sull'Io, portatore di uguali intenzioni e significati. Ridurre l'Altro a mera differenza, trasformare la sua alterità, la sua "dote qualitativa" in un insieme di variazioni quantitative è quanto di più limitativo ci possa essere. Liberare il ricercatore da pregiudizi culturali e preconcetti antropologi che ostacolano la visione dell'altro e impediscono di coglierne l'essenza che è, poi, la sua stessa alterità, è l'obiettivo da raggiungere per una più autentica esperienza vissuta dell'esotico e del diverso.

    La situazione etno-antropologica non si risolve, però, in pura contemplazione - da ambo le parti - della "stranezza" che ci si trova di fronte ma si trasforma, necessariamente, in uno scambio e, quindi, in un dialogo. "[...] Dialogando si interpreta, si tenta di cogliere i significati dell'alterità. Sia pure in modo non sistematico, né definitivo, sembra quasi che nel dialogo con l'Altro scocchi la scintilla della verità antropologica. Questa è indubbiamente la virtù dell'alterità" [6].

    Quanto segue rappresenta la riflessione del "giorno dopo"; la rilettura di un'esperienza di campo avuta tra le donne della comunità senegalese [7] presente a Napoli, tra il 1995 e il 1998. La metodologia adottata si basa sulla personale constatazione che le ricerche quantitative non sono in grado di darci "il senso della vita come movimento evolutivo nel tempo, non possono aiutarci a comprendere come le difficoltà oggettive della situazione di fatto siano vissute dalle persone, ossia come i dati oggettivi accertati si trasformino in atteggiamenti psicologici, diventino cultura come modo di vita" [8]. Al metodo del sondaggio - che può dare uno spaccato congelato del problema, matematicamente preciso ma umanamente povero - sembra preferibile quello biografico che consente agli esseri umani analizzati di far emergere con le loro parole e talvolta con i silenzi, le aree problematiche reali, le questioni in cui si trovano impigliati.

    Il discorso si è sviluppato su due registri. Uno scientifico, quello dell'etnologo e l'altro più fluido ed informale, il mio diario di campo. Dai tanti block notes, sui quali ho annotato meticolosamente e giornalmente quanto è accaduto in questi tre lunghi anni di ricerca, durante le mie "discese sul campo", ho estrapolato i momenti, gli eventi, le conversazioni, quelle "mezze-frasi" dette, quei piccoli gesti che mi sono parsi più significativi ed avvaloranti nei confronti della ricerca. Questi due registri sono andati di pari passo, e, pur riguardando la stessa materia, hanno espresso con codici diversi il contenuto della mia esperienza. E' in questo modo che ho deciso di produrre quel processo che va "dall'evento al documento" [9].

    Il tema delle relazioni dialogiche

    Conoscere Aïda Fall ha significato "conoscere tutti"; la sua fitta rete di relazioni e di amicizie la pongono in una posizione di prestigio e di privilegio rispetto a tante altre donne. Aïda conosce tutti e sa tutto di tutti, in virtù anche del fatto che è stata una delle prime donne ad arrivare a Napoli (nel 1989). La casa di Aïda e del marito rappresenta un crocevia dal quale tutti vanno e vengono, prendono informazioni, chiedono notizie e, soprattutto trovano sempre ospitalità, un letto per dormire e un piatto caldo. E' lì che ci si incontra, che ci si saluta, che ci si ferma per riposare un po' e guardare la televisione. Per chiunque venga a Napoli, specie se donna, conoscere Aïda diventa una tappa obbligata, perché nessuno meglio di lei può dare i consigli giusti, le indicazioni più appropriate. In qualunque momento la sua casa è aperta. La domenica pomeriggio c'è una vera e propria "invasione" di senegalesi, amici del marito, che accorrono per guardare le partite alla televisione, per giocare a carte o semplicemente per chiacchierare. Sono talmente tanti da stare seduti l'uno vicino all'altro, quasi accalcati, su quel tappeto e lì, per quelle poche ore, sembrano essere trasportati in uno spazio e in un tempo lontani, dimentichi della loro quotidianità. Aïda, nel suo "regno", la cucina, prepara da mangiare, in compagnia di qualche amica e della sottoscritta. La musica etnica e il suono di parole che, per lo meno agli inizi era completamente indecifrabile, fanno da sfondo a quella "piccola Africa".

    Nel corso della mia ricerca Aïda è diventata la mia guida, il mio passe-partout presso altri membri della comunità senegalese, la mia principale informatrice; lei ed il marito mi hanno accolto senza remore nella loro casa che è diventata per me una seconda dimora, un punto di riferimento importante in caso di bisogno. Questo non significa che abbia attribuito minore importanza alle altre donne con le quali ho lavorato ed ho stabilito un legame particolare, diverso e speciale. Condivido l'idea di chi afferma che il termine "informatore" è troppo riduttivo e non riesce, di per sé, a rendere il senso e l'importanza che tale figura rappresenta all'interno del lavoro antropologico [10]. Altrimenti definito "interlocutore" o "nativo", questo personaggio (o personaggi, come può accadere in alcuni casi) resta un elemento assolutamente attivo nel lavoro di plasmazione delle rappresentazioni delle realtà culturali prodotte dagli antropologi. Gli informatori sono le "cerniere", i "punti di attacco" di cui il ricercatore dispone per entrare in rapporto con ciò che si è proposto di tradurre e quindi di rappresentare. La relazione antropologo-informatore è, essa stessa, parte del lavoro antropologico sia nella sua fase di campo che in quella dell'elaborazione finale di un prodotto alla cui stesura contribuiscono più mani (se non effettivamente, almeno virtualmente). Tale rapporto va letto proprio come luogo di produzione del sapere antropologico. Perché? Perché il campo è un ambiente comunicativo dove antropologo ed informatore/i mettono in gioco se stessi e si definiscono reciprocamente in base alle proprie categorie culturali che, con l'intensificarsi delle relazioni, si modificano dando vita a "quelle rappresentazioni costitutive del prodotto etnografico finale, alla cultura come produzione etnografica" [11].

    Sta alla sensibilità dell'etnologo, cercare e trovare, nel campionario umano a sua disposizione, coloro che gli saranno utili guide nella lettura di un testo quanto mai mobile e sfaccettato com'è quello di una cultura umana, osservata direttamente nelle sue espressioni quotidiane, a livello individuale come collettivo; e nel suscitare il loro interesse in modo che essi non funzionino come stanchi robot o come annoiati traduttori o ripetitori d'informazioni minuziose o, ancora, come impiegati a pagamento, ma come collaboratori partecipi, comprensivi e desiderosi di spiegare la propria cultura all'altro venuto da lontano. Aïda ha rappresentato, dal primo momento, la classica informatrice da manuale, colei che qualunque ricercatore vorrebbe incontrare ma, allo stesso tempo, sfuggire. Donna molto furba ed intelligente, ha capito subito quali erano i motivi del mio interessamento nei confronti della sua comunità e, accettandomi di buon grado - come mi è parso -, ha posto anche le condizioni della mia presenza tra "loro", nonché il tipo di rapporto che avrebbe caratterizzato il dialogo o lo scambio.

    Se oggi mi sento di dire che ho trovato in lei la sorella che non ho avuto, per quel clima di confidenza e di fiducia che si è instaurato nel corso della nostra amicizia - in ragione del fatto di essere coetanee - è pur vero che rimaneva un'immigrata di colore in cerca di miglior fortuna nel nostro paese ed io una studentessa italiana dal viso pulito che era anche affascinata dall'esotico e che trovava molto gratificante ricevere riconoscimenti di ogni tipo da parte dei suoi amici senegalesi (ma quale ricercatore non li vorrebbe?). Retaggio di un passato storico-coloniale che ha retto e regge tuttora l'ideologia del centro-periferia, Aïda aveva trovato in me il simbolo del suo riscatto sociale, quasi un trofeo da mostrare ma anche da custodire gelosamente lontano dagli sguardi delle altre donne. Considerata da tutti una Fall, potevo sì ottenere consensi ed accettazione ovunque ma ero diventata una proprietà privata, appunto di Aïda, e questo stigma ha condizionato la mia ricerca in positivo quanto in negativo. Impedendomi di stabilire contatti troppo prolungati e approfonditi - perché gelosa - per quanto le era possibile ha cercato di influenzare non poco la mia ricerca. Per un lungo periodo le mie discese sul campo sono dipese da lei, dalla sua disponibilità a parlare o ad accompagnarmi in giro.

    E' così che può essere letto il mio legame con Aïda, di forte dipendenza. Oggi, dopo una più attenta e matura riflessione, mi sento di aggiungere l'aggettivo "schiacciante" perché l'etnologo, figlio pur sempre di una cultura colonialista ed eurocentrica, non riesce più a gestire la relazione, da osservatore diventa osservato e non agisce soltanto ma è anche agito. Gli informatori, dunque, lungi dall'essere neutri trasmettitori di informazioni, influiscono in modo determinante sulle modalità di costruzione e di scrittura delle rappresentazioni etnografiche. Ognuna di esse è il frutto di una differente interazione tra antropologo ed informatore, nonché di una diversa intenzionalità etnografica. La relazione antropologo-informatore può essere definita come "una croce morale espressa con vari angoli di angoscia e ipocrisia. Personalmente determinata, politicamente ed ideologicamente compromessa, linguisticamente manipolata, eticamente dubbia" [12]: è questo il senso del rapporto etnografico. Sin dall'inizio avevo previsto una reazione di sospetto piuttosto che un'accoglienza rilassata. In particolare una maggiore diffidenza l'ho potuta riscontrare in quelle donne "molto lontane" da me per stato civile, età e per differente esperienza di vita, mentre un'ospitalità più calda l'ho trovata con le mie coetanee o con chi - come è ovvio supporre - aveva già avuto prolungati contatti con la società europea sia per la durata della permanenza in terra di immigrazione, sia per il tipo di vita vissuto che ha portato ad una crescente accettazione dei valori e delle categorie nostrane, ma non per questo dimenticando le proprie.

    L'esempio è Thiara Diop, la mia "occasione mancata". Un iniziale atteggiamento di sospetto era più che comprensibile. Era la prima volta che un'italiana entrava nella sua casa, che accettava di sedersi sul suo letto e di condividere il cibo con lei. Il timore nasceva dalla sua condizione di irregolare, senza permesso di soggiorno. Nel momento in cui Thiara si rese conto che non potevo essere una minaccia per lei non ci furono più ostacoli fra noi. Il vero scoglio nel nostro rapporto è stata la nostra diversità. Ovvio? Ed invece no. Mi aveva aperto la sua casa, offerto il suo cibo, dato un letto per riposarmi, insomma aveva avuto per me tutte quelle attenzioni che una madre ha per una figlia. Fatto questo, lei, non riusciva davvero a capire che cosa volessi. Io, invece, volevo le sua parole, i suoi pensieri, la sua storia, la sua vita. I nostri punti di vista erano, quanto mai, diversi. Thiara mi aveva fatto partecipe di tutto quello che per lei era importante e fondamentale, mi aveva dato tutto. Si considerava mia madre e come tale si comportava. Se le mie assenze da casa sua si facevano molto prolungate, chiedeva al figlio di telefonarmi per avere mie notizie; lei stessa mi ammoniva se non le facevo visita. Ero diventata "sama doom, sama doom" ("figlia mia, figlia mia"), frase con la quale mi accoglieva ed io non dovevo chiamarla Thiara ma "mam".

    In un'ottica puramente etnocentrica ho voluto impostare il mio rapporto con Thiara su un livello paritario dimentica della nostra differenza generazionale e sociale. Sulla scia della rivoluzione dei ruoli che ha interessato quella grossa fetta di società globale ormai lontana dagli schemi tradizionali, pensavo di potermi relazionare con lei in un modo tutto innovativo, con un'apertura affettiva ma soprattutto mentale. Supportata da questa errata convinzione non sono riuscita nel mio intento. A caratterizzare i nostri frequenti incontri sono stati lunghi e insopportabili"silenzi; ogni mio tentativo di stabilire un dialogo che andasse oltre i semplici convenevoli ha trovato un ostacolo insormontabile. Ancora adesso sento echeggiare nella mia mente quella frase che per un lungo periodo ho detestato; "parles con Daouda, parles con Daouda" erano le parole che Thiara mi propinava quando le mie domande si facevano troppo insistenti e la mia presenza diventava scomoda. Secondo le sue categorie - che in questo caso risultavano quelle corrette - l'oggetto delle mie attenzioni non poteva essere lei ma il figlio, mio coetaneo, istruito e sicuramente con uno stile di vita molto affine al mio. Riflettendo a distanza di tempo, capisco solo ora come i miei presupposti fossero sbagliati e che da Thiara, che si definiva mia madre, non avrei potuto pretendere altro che affetto e attenzioni materne e nei suoi confronti non avrei potuto essere che una figlia rispettosa che non fa domande alla madre perché sconveniente e poco attenta alla differenza di età.

    Maturando col tempo una coscienza esotica [13] potrei significativamente proporre l'espressione di "indifferenza alla differenza" per riassumere il mio approccio errato. La relazione con Thiara rappresenta per me un caso emblematico di "un non saper vivere la relazione" e, quindi, di omologazione. "Esiste una contraddizione nel voler abolire una distanza la cui esistenza è riconosciuta e nel pretendere di confondersi nel magma dei fatti e dimenticare la propria - ma anche l'altrui [corsivo mio] - presenza identitaria" [14]. Tutto accade come se si rimproverasse agli informatori di avere un'esistenza autonoma da quella del ricercatore; si esige da loro che riflettano fedelmente non solo gli usi e i costumi del gruppo di appartenenza ma anche la personalità di chi sta loro di fronte. Si nega loro il diritto di essere quello che sono, appunto altro, di essere attori della loro storia, di esistere per se stessi e non per gli altri (gli antropologi). La coscienza di questo momento è, a sua volta, una coscienza dell'alieno nel senso che la comprensione dell'alterità esige la perdita, l'abbandono momentaneo o la sospensione dei propri punti di riferimento.

    L'alterità non è solo irriducibile ma è soprattutto inquietante perché sfugge ad ogni forma di controllo e di categorizzazione; ogni approccio a essa dovrebbe premunirsi di una tensione esotica. La posizione dell'antropologo che agisce sul campo è ambigua e scomoda; l'esigenza fondamentale che anima una ricerca etno-antropologica implica innanzi tutto il riconoscimento sia dell'identità dell'Altro, sia dell'identità di chi compie l'indagine. Qualunque soggettività prevalga - quella dell'informatore, il caso di Aïda, o quella del ricercatore, nel caso di Thiara - è inevitabilmente una rottura dell'identità. L'alterità acquista un senso solo se si precisa al di fuori dell'atteggiamento degli interlocutori, il che vuol dire che non è in qualità di antropologo che deve lavorare chi compie la ricerca, ma in quanto Altro aperto agli Altri: unico modo per rispettare gli spazi, l'identità di quanti appartengono a un'altra cultura e anche unico modo per non lasciarsi sommergere dagli altri.

    Tutto il lavoro etnografico può essere letto alla luce di due parole: "rischio" e "malinteso". L'esperienza antropologica è un rischio e si connota per essere ingannevole e, quindi, inautentica; il pericolo è tanto più evidente quando s'incontrano due mondi culturalmente lontani, come nel mio caso. Far fronte ad un diverso contesto culturale diventa una questione di rischio: il rischio di pensare, proporre e disporre nuovi significati culturali che il mondo, gli uomini, le cose possono smentire in ogni momento. Ma anche "interpretare" comporta una serie di rischi: il rischio di conferire un senso, di ricostruire in narrazioni continue ciò che si è visto, il rischio di dire e non dire, di prendere posizione su quanto si è detto: il rischio di un'impossibile intimità con la verità [15]. Così come il rischio di dare una forma definitiva ad una materia che col tempo potrebbe essere un'altra rappresentazione e potrebbe alimentare altri discorsi. L'etnologo non può diventare altro rispetto a se stesso; non può negare la propria identità di straniero, anzi sarebbe corretto che se ne servisse in modo tale che la nuova realtà susciti una filosofia dialogata, la quale emerge grazie all'incontro di due culture. L'etnografia è, quindi, interpretativa: ciò che s'interpreta è il flusso del discorso sociale e l'interpretazione consiste nel tentativo di preservare il "detto" di questo discorso dall'eventualità che esso svanisca e di fissarlo nei termini che ne consentano una lettura.

    "La vocazione essenziale dell'antropologia interpretativa non è di rispondere alle nostre domande più profonde, ma di mettere a disposizione risposte che altri (badando ad altre pecore in altre vallate) hanno dato e includerle così nell'archivio consultabile di ciò che l'uomo ha detto" [16]. La negoziazione dei significati [17], l' "invenzione della cultura" [18] non sono solo quelle che avvengono sul campo, ma anche, e forse soprattutto, quelle che si configurano e si strutturano nel corso del tempo in base alle diverse prospettive teoriche e personali con cui il materiale è riletto. Il malinteso diventa, così, il tramite privilegiato per raggiungere la conoscenza; indica che le strutture conoscitive, gli schemi che si hanno a disposizione non sono adatti ad affrontare la relazione. E' solo così che si può percepire l'altro in tutta la sua alterità: con il malinteso l'altro si dimostra davvero tale. Il malinteso non è dovuto ad una mancanza di informazione ma è un non "sapere la relazione" e per uscire dal malinteso bisogna imparare a vivere e sapere come vanno le cose. Non solo è necessario liberarsi il più possibile dei propri schemi, ma aprirsi all'alterità implica una certa dose di prudenza e di discrezione. L'atteggiamento ideale sul campo è quello di colui che, con la curiosità del bambino e l'accortezza dell'adulto, vuole prima di tutto imparare qualcosa di nuovo, sforzandosi di andare oltre le proprie aspettative.

    E un ruolo fondamentale - come è stato più volte ripetuto - è giocato dal modo di presentarsi e di interagire dell'informatore e dell'etnologo. La loro relazione è una drammatizzazione dei rispettivi ruoli, è esibire certe verità e nasconderne altre, è un continuo tira e molla, una reciproca manipolazione, una "vera e propria lotta, con l'uso di presupposizioni, digressioni, dissimulazioni, atti di metacomunicazione" [19]. In questo senso il dialogo, la parola - oltre all'osservazione - diventano degli strumenti conoscitivi privilegiati ed i veicoli di verità nascoste e di palesi menzogne. Uso volutamente questo gioco di parole per sottolineare - ancora una volta - il carattere anche paradossale e la complessità della ricerca sul campo. Le resistenze, le omissioni, le dimenticanze - quasi sempre intenzionali - non sono da considerarsi come semplici ostacoli alla ricerca ma elementi su cui riflettere per giungere ad una più completa e profonda comprensione. La riflessività significa, a questo riguardo, un resoconto consapevole delle condizioni di produzione della conoscenza mentre viene prodotta e costituisce la base della pratica ermeneutica [20]. Riflessività significa introdurre nel testo etnografico il tema delle relazioni dialogiche, cioè come etnografo ed informatori costruiscono un testo collettivamente. E la stessa ricerca non può essere considerata come il risultato innocente di un rapporto simile all'amicizia [21]. Aggiungerei che l'informatore può essere considerato il primo censore della propria cultura poiché è lui a stabilire quali informazioni fornire all'antropologo e quali tacere, è lui a decidere quando parlare e quando creare quel "muro di gomma" che è dato dai suoi silenzi di fronte ai quali nulla può colui che, come mi è più volte accaduto, sembra essere agito come una marionetta. In fondo non erano, forse, imbroglioni e bugiardi gli indigeni di Malinowski? [22]

    Sapere e pratica antropologica


    Nel sapere antropologico e nella sua pratica è insita una difficile e, allo stesso tempo, biasimevole operazione di "riduzione". Conoscere e capire la cultura altra è possibile solo riconducendo l'ignoto al noto, il non familiare al familiare e, quindi, riportando il tutto alle proprie categorie culturali: impresa di per sé degna e necessaria ma, appunto, riduttiva. Richiamo, a questo proposito, l'immagine dell'antropologo "traduttore-traditore"; un gioco di parole che insiste, "sulla mancanza di un segno di uguaglianza, e quindi sulla realtà di ciò che va perduto e distorto nell'atto stesso del comprendere, del valutare, del descrivere" E ancora: "[...] La traduzione interculturale non è mai completamente neutrale; è avviluppata in relazioni di potere: si entra nel processo di traduzione da una posizione specifica, da cui si sfugge solo in parte. Nella traduzione riuscita, l'accesso a qualcosa di estraneo - lingua, cultura e codici diversi - è sostanziale. Qualcosa di diverso viene convertito, reso disponibile per la comprensione, l'apprezzamento, la fruizione. Allo stesso tempo il momento dell'insuccesso è inevitabile. La consapevolezza di ciò che sfugge alla versione "finita" affliggerà sempre il momento del successo [...] Se affrontato consapevolmente, l'insuccesso provoca una consapevolezza critica della propria posizione e, di conseguenza, riapre il processo ermeneutico" [23].

    Nel momento stesso in cui avevo la possibilità di assistere ad un "fatto" che si poteva ascrivere nell'universo del quotidiano o ad un avvenimento particolare, straordinario, sapevo che, in quel medesimo istante, era già finito, mi era già sfuggito. "Filmarlo" nella mia mente o su carta Kodak, immortalarlo successivamente nelle pagine del mio diario lo aveva alterato, modificato e sottoposto inevitabilmente ad interpretazione. Era stato filtrato dal mio modo di essere, dalla "mente antropologica" così come dalla mia identità femminile, occidentale, medio-borghese e via dicendo. L'affannosa ricerca di informazioni, dei contatti giusti, delle conoscenze più opportune, la cura alla propria immagine per ovviare a quella sensazione di sentirsi fuori posto che qualunque antropologo ha, almeno una volta, provato, l'ansia e l'eccitazione per l'incontro con l'esotico, vengono a scontrarsi con quel paradosso proprio del lavoro di ricerca sul campo per cui alla fine, quel che resta sono solo delle "diapositive antropologiche". Avere ben chiaro tutto questo, essere consapevoli dei limiti dell'impresa etnografica può essere la pre-condizione per la sua migliore riuscita. D'altra parte l'antropologia insegna che è necessario "prendersi tempo"; non può esistere conoscenza senza la riflessione che viene dal coraggio di riconsiderare i problemi a distanza di tempo. L'antropologo si differenzia dagli altri ricercatori sociali perché accetta che la distanza - spaziale e temporale - si ponga tra lui e il suo oggetto di studio, perché accetta che ciò che conta non sia solo l'esattezza della conoscenza ma la "profondità della comprensione": accetta il rischio dei suoi pensieri. Come postilla finale voglio ricordare le parole della mia "maestra": "Il viaggio non è solo un'avventura dell'intelligenza in un mondo altro, ma è anche un'esperienza di vita, una particolare forma di iniziazione, con le sue prove e le sue scoperte, con i suoi momenti d'entusiasmo e di depressione, i cui frutti germoglieranno nel tempo" [24].


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    NOTE

    [1] J. Clifford, 1999:21
    [2] J. Clifford, 1993:113
    [3] E. de Martino, 1997:391
    [4] Ivi, p. 396
    [5] F. Barth, 2000:425
    [6] F. Remoti, 1991:XV
    [7] Il termine senegalese è usato - qui, come altrove nel testo - come sinonimo di wolof, principale etnia del Senegal. Infatti la stragrande maggioranza dei senegalesi presenti sul nostro territorio proviene da quelle aree del paese (regioni nord-ovest, Baol, Sine-Saloum, Dakar) a prevalente popolamento wolof.
    [8] F. Ferrarotti, 1988:37-39
    [9] C. Bianco, 1988
    [10] U. Fabietti (a cura di), 1998:15
    [11] Ivi, p. 13 e ss.
    [12] A. Riscaldi in U. Fabietti (a cura di), 1998:143
    [13] F. Affergan, 1991:7
    [14] Ivi, p. 169
    [15] J. Clifford, 1999:68
    [16] C. Geertz, 1987:71
    [17] S. Manoukian in U. Fabietti (a cura di), 1998:55
    [18] R. Wagner, 1992
    [19] M. Griaule citato in L. Rodeghiero in U. Fabietti (a cura di), 1998:31
    [20] G. Marcus, 2000:69-70
    [21] J. Clifford, 1993:96
    [22] M.I. Macisti, 1993
    [23] J. Clifford, 1991: 58-59; 226-227
    [24] M. Lo spinoso, 1993:130


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